Le donne che ci piacciono. Intervista alla giornalista Claudia Sarritzu: “La mia battaglia per il linguaggio di genere”
Inauguriamo la rubrica "Le donne che piacciono" con un'intervista alla giornalista e scrittrice cagliaritana Claudia Sarritzu, autrice del fortunato saggio “Parole avanti”, che tratta senza sconti la discriminazione e la violenza di genere osservate da chi fa informazione in Italia.
Inauguriamo la rubrica “Le donne che piacciono” con un’intervista alla giornalista e scrittrice cagliaritana Claudia Sarritzu, autrice del fortunato saggio “Parole avanti”, che tratta senza sconti la discriminazione e la violenza di genere osservate da chi fa informazione in Italia.
Il libro della Sarritzu analizza le parole dei media e quelle, piene di stereotipi, della nostra quotidianità. Cerca di spiegare la necessità di un nuovo femminismo. Dalla donna sarda a quella siriana, dal maschilismo italiano a quello brasiliano, dalle lotte dei movimenti femministi occidentali fino alle combattenti curde, tesse la trama di una rivoluzione in atto che nessun maschilismo potrà fermare.
Scatta una fotografia a quella che è la situazione in cui versa il femminismo oggi.
Credo che sia in ottima forma. Gode di buona salute, infatti era dagli anni “70 che non ricevevamo così tanti attacchi e non si manifestava così tanto odio verso di noi. Addirittura in Spagna il partito Franchista di Vox ci inserisce tra i punti del programma, si definiscono “antifemministi”. Dal Rohava al Brasile, dall’Europa all’America di Trump, dal Cile all’Arabia Saudita le donne si sono finalmente svegliate dal torpore degli anni “90.
Cosa vuol dire essere femministi? Perché in Italia oggi è importante parlare di femminismo?
Mi autocito: Femminismo è una parola bellissima perché non è il contrario di maschilismo. Questo va ripetuto fino alla nausea soprattutto nelle scuole. Ci si batte per l’emancipazione di una società intera, non per sancire la superiorità di un genere sull’altro. È antifascista, antirazzista, antiomofobo. Il femminismo è inclusivo e accogliente. In Italia il populismo e l’ignoranza percepita ormai come una virtù da sbandierare stanno portando il nostro Paese a fare degli orrendi passi indietro. Con i decreti sicurezza di Salvini che questo governo non ha il coraggio di cancellare se la sono presa con i migranti e con il ddl Pillon (momentaneamente bloccato) se la possono prendere con le donne. E ciò che più mi preoccupa è il maschilismo delle donne italiane.
Quali sono, quindi, le battaglie femministe da portare avanti? Quali le soluzioni per affrontare il patriarcato?
Battaglie vecchie, cioè un costante lavoro di vigilanza sulle precedenti conquiste. Viviamo in un Paese in cui la religione a destra viene usata come collante in una crociata contro i diritti civili. Il diritto all’interruzione di gravidanza non possiamo permetterci di darlo per scontato. Ma con la proposta di Pillon lo stesso divorzio nella pratica diverrebbe complicato. Dobbiamo quindi stare in guardia. Nelle nuove battaglie io do molta importanza al linguaggio di genere. Rendendo la nostra lingua una lingua paritaria forse inizieremo a scardinare le basi culturali del patriarcato. La lingua è l’anima di un popolo. Intervenendo su di essa si possono compiere grandi rivoluzioni.
Quando e come è maturata l’idea di scrivere un libro che affronta la violenza di genere e il modo in cui viene raccontata/proposta dai media?
E’ accaduto tutto in modo molto naturale l’estate scorsa. Quotidianamente mi occupavo di narrazione della violenza, della declinazione al femminile dei termini. A un certo punto ho capito che dovevo custodire in un libro la mia esperienza per diffonderla. L’ho scritto in tre mesi provando una grande urgenza.
Quali sono i tre principali errori che commettono i media nel narrare la violenza di genere?
I titoli, usati come corpi contundenti contro le vittime di violenza, ma anche solo contro una donna che si ribella all’ordine costituito (pensate a Carola Rackete). Le foto, che ci mostrano addirittura collaborative durante uno stupro. E il linguaggio pornografico. Si parla di noi sempre come oggetti sessuali e non come individui pensanti.
Le parole creano mondi, si dice spesso ( e giustamente). Con il tuo libro contribuisci con vigore ad una rivoluzione linguistica. Perché è così necessaria e perchè – secondo te – viene dai più sottovalutata, presentata non come un’emergenza ma come una questione di poco conto?
Nel mio primo saggio ho raccontato la Sardegna della crisi economica. Ho dormito nelle fabbriche occupate, ho intervistato solo uomini praticamente. In qualche modo ho lottato con loro, dal Sulcis all’Isola dell’Asinara. Quando alcun* hanno saputo che il mio saggio si occupava di discriminazione di genere ho ricevuto commenti delusi. “Ero troppo brava per occuparmi di argomenti da donne”. Questi commenti mi hanno fatta riflettere. E siccome sono testarda e ostinata ho girato ancora di più l’Italia per presentazioni, sono arrivata a 23 incontri. E continuerò. Questo libro non ha una data di scadenza, purtroppo. Faccio un altro esempio. Se a scuola porti un indovinello semplice semplice sul potere delle parole in pochissimi ne vengono a capo.
Ecco l’indovinello: Ci sono un padre e un figlio che mentre vanno a scuola in auto hanno un incidente, il padre muore sul colpo. Il bambino viene trasferito in ospedale ma il chirurgo quando lo vede dice: “Non posso operarlo io, è mio figlio”. Nessuno pensa che il chirurgo è la madre, tutti si chiedono se il padre era davvero morto o se era figlio di una famiglia arcobaleno. Questo accade sia perché una donna chirurgo sembra difficile da incontrare sia perché avremmo dovuto usare la parola declinata al femminile “chirurga”. Tutto quello che non ha un nome non esiste. E noi spesso per colpa di questa lingua tutta maschile non esistiamo.
Con quale criterio hai scelto le donne che hanno contribuito alla stesura del tuo libro? Cos’è per te la sorellanza?
Sono tutte amiche (e amici, ci sono anche due uomini). Persone con cui ho intrapreso un percorso di sorellanza e fratellanza, appunto. Compagne, compagni di lotta. Ho solo amici che stimo tantissimo e che ho piacere a far apparire nei miei libri.
Cosa pensi dei movimenti come #metoo e time’s up? I social, in quella che oggi viene definita la quarta ondata di femminismo, aiutano a veicolare i giusti messaggi o no? Non si rischia, secondo te, di avere tanta presenza in rete e poca sui territori?
Qualsiasi mobilitazione anche virtuale può essere d’aiuto. Ma credo che il problema della poca presenza nelle piazze non sia solo dei movimenti femministi. La gente è pigra. Per questo odia. Odiare non costa fatica. Invece, ascoltare, capire, creare ponti e non muri, praticare l’empatia è faticoso.
Le disparità di genere si avvertono più che mai nel lavoro. Quale è stata, in quest’ottica, la tua esperienza personale? Ti sei mai sentita messa da parte sul lavoro o presa meno sul serio in quanto donna?
Mai messa da parte sul lavoro. Ho sempre avuto capi uomini che hanno investito tantissimo su di me. Ma ho anche ricevuto da uomini e donne minacce, anche di stupro, quando in qualche mio articolo ho raccontato verità scomode. La prima volta avevo 26 anni, più che paura provai rabbia. Non mi sono mai fermata. Più cerchi di farlo più io ricarico le batterie.
E gli uomini? In quali stereotipi sono imprigionati? Quale deve essere il loro ruolo in questa battaglia?
Vorrei uomini liberi di piangere al cinema, di provare paure, capaci di chiedere aiuto, di giocare con una bambola se da bambini lo desiderano. Vorrei un figlio a cui non venga insegnato a essere un principe che salva la principessa. Ho dedicato questo libro ai miei amici maschi. Non è una provocazione, ho solo avuto la grande fortuna di incontrare uomini meravigliosi più femministi di me. Questa battaglia non è una battaglia contro di loro, ma con loro e anche per loro.
Cosa significa essere donna oggi? Quali i diritti, i doveri, i limiti e le peculiarità dell’altra metà del cielo?
Che domanda difficile! Posso risponderti cosa significa per me essere donne. Io la vivo in modo avventuroso, ho un ciclo dolorosissimo che mi costringe a letto un paio di giorni. Mangio, bevo, se mi controllo lo faccio per la salute, non per piacere a qualcuno. Mi prendo cura della mia autostima. Cerco di volermi bene ogni giorno, di vivere per me e non per l’idea di me che ha la società. Faccio solo quello che mi piace non quello che ci si aspetta da me in quanto donna. I limiti esistono solo nella nostra testa. L’unico nostro dovere è rispettarci e pretendere rispetto.
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