Madre picchia la maestra del figlio: l’insegnante non avrebbe sedato una lite

#Italia Quinta elementare: due bambini per futili motivi iniziano a picchiarsi. Uno dei due la finisce con un occhio gonfio e qualche livido: la madre dell'alunno aggredisce l'insegnante "rea" di non aver difeso il figlio.
La maestra non avrebbe sedato una lite tra due bambini e la mamma dell’”aggredito” picchia l’insegnante. E’ successo nel Lodigiano: come riporta TgCom, un’insegnante è stata aggredita da una madre di un bambino perché non sarebbe intervenuta a difendere il figlio, picchiato in classe da un compagno.
Protagonisti due bambini di quinta elementare, venuti alle mani per motivi banali. Ad avere la peggio è stato lo studente che per primo è stato aggredito e che è stato colpito fino a procurarsi un occhio gonfio e qualche livido sul volto. L’insegnante, in quel momento presente in classe, aveva subito pensato di informare la mamma della vittima, convincendola a raggiungere l’istituto per andare a prendere, e portare a casa, il bambino rimasto ferito. Dopo qualche screzio verbale, però, è scattata l’aggressione nell’atrio dell’istituto, a pochi metri di distanza dal banco delle bidelle.
Accadde oggi. 9 maggio 1978, il ‘giorno nero’ dello Stato: assassinati Aldo Moro e Peppino Impastato

Il corpo di Aldo Moro fu ritrovato senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Cateani a Roma, a poche centinaia di metri da piazza del Gesù, luogo della sede storica della Democrazia Cristiana. Quello di Peppino Impastato fu fatto esplodere lungo i binari della ferrovia con del tritolo.
Il 9 maggio del 1978, fu uno dei giorni più infausti della recente storia italiana. Si potrebbe quasi definire il giorno più “nero” dello Stato. Quarant’anni fa, in due luoghi distinti, a Roma e a Cinisi, in provincia di Palermo, si consumarono gli assassinii del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e del giornalista antimafia Peppino Impastato. A perdere fu lo Stato, due volte nello stesso giorno.
Il corpo di Aldo Moro fu ritrovato senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Cateani a Roma, a poche centinaia di metri da piazza del Gesù, luogo della sede storica della Democrazia Cristiana. Era la mattina del 9 maggio 1978. Moro era stato sequestrato dalle Brigate Rosse 55 giorni prima, il 16 marzo dello stesso anno, in via Fani, nel tragitto da casa sua alla Camera dei Deputati. Quella mattina Giulio Andreotti stava andando a chiedere la fiducia per il nuovo governo. Moro non si presentò in aula. I suoi 5 uomini di scorta furono tutti assassinati. Si chiamavano Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
L’esponente di spicco della Democrazia Cristiana fu ucciso dopo settimane di dure trattative tra le Br e il governo. I brigatisti, per il rilascio di Moro, chiedevano in cambio la liberazione di diversi prigionieri. Il pugno duro dello Stato ebbe in tutta risposta l’epilogo più tragico. Quella mattina di quarant’anni fa i brigatisti dissero a Moro che lo avrebbero portato in un altro luogo, lo coprirono con una coperta e gli spararono 10 colpi fino a ucciderlo.
L’omicidio fu rivendicato chiaramente dalle Br. Negli ultimi scritti di Moro durante la prigionia, si leggono però accuse precise da parte della vittima a chi poteva fare qualcosa e qualcosa non ha fatto:
«Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Son convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni (Leone, ndr) che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro».
Ma il 9 maggio 1978 lo Stato italiano perse un’altra battaglia (non la guerra) contro un altro nemico: la mafia. Vittima di questa sconfitta fu il giornalista siciliano Peppino Impastato, che dalle frequenze della piccola radio indipendente Radio Aut, combatteva la criminalità organizzata con l’arma della parola, informando i suoi concittadini di Cinisi sulle collusioni tra politica e mafia diffuse nel paese, soprattutto ad opera di Tano Badalamenti.
Nel 1978 si candidò alle elezioni comunali con Democrazia Proletaria. Questa ultima scelta, di schierarsi anche politicamente contro la criminalità organizzata, la pagò con la vita. Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, Peppino Impastato, a soli 30 anni, fu assassinato. Il suo cadavere fu fatto esplodere lungo i binari della ferrovia con del tritolo, così da inscenare un suicidio. L’omicidio fu per lungo tempo offuscato dalla contemporanea uccisione di Aldo Moro, ma anche da indagini sballate che ridussero la vicenda a un attentato terroristico finito male. Ma la memoria di Peppino fu onorata dai familiari che hanno combattuto per tanti anni affinché la verità venisse a galla. Nel 1983 fu riconosciuta la matrice mafiosa del delitto, anche se l’omicidio ebbe i suoi colpevoli, Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, solo nei primi anni 2000 con le condanne rispettivamente a 30 anni e all’ergastolo.

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