Letto per voi. Un racconto di dolore e amore: ‘GIANNA. Lei, era mia sorella’ di Carmen Salis
di Federica Cabras Gianna non aveva mai preso un aereo e non sapeva che fuori da quell’isola oltre all’acqua poteva esserci qualcos’altro. Non aveva ancora visto la faccia dell’uomo della sua vita e non aveva mai assaggiato la cucina messicana.
di Federica Cabras
Gianna non aveva mai preso un aereo e non sapeva che fuori da quell’isola oltre all’acqua poteva esserci qualcos’altro. Non aveva ancora visto la faccia dell’uomo della sua vita e non aveva mai assaggiato la cucina messicana. Non sapeva quanto bella può essere la neve quando fiocca sul viso, non conosceva i colori che assume il cielo all’alba in un giorno d’estate.
Carmen Salis racconta Gianna. Sua sorella.
Gianna non sapeva cantare ma lo faceva, a squarciagola e senza vergogna.
Gianna era molto religiosa. E amava il mare e i bambini.
Gianna faceva delle meringhe ottime e, malgrado poi non ne mangiasse – non le piacevano affatto –, si impegnava con tutte le sue forze affinché fossero perfette; le osservava alzarsi nel forno, prendere la forma, diventare piccoli capolavori dolci. Sembravano Regine. Ho provato e riprovato a preparare le meringhe senza di lei. Rimangono aloni senza colore sulla teglia. Non sono capace di farle diventare delle regine. Vorrei che lo sapesse. Lei era brava.
Ma Gianna non era nata fortunata.
Non poteva avere una famiglia sua, un marito e dei bambini che ti aspettano a casa, che ti chiamano “mamma”, che si nutrono del tuo amore e della tua pazienza. Non poteva vedere la luce. Non poteva godere appieno di una vita che dà tanto, che offre tanto, che regala tanto. Era bipolare e questa malattia le aveva succhiato via tutta la forza, tutta la giovinezza… l’aveva trascinata in un vortice nero come la pece.
E da quel buio, che già lei conosceva ma non con quelle profondità, non ne sarebbe potuta uscire. Mai.
Era fragile, Gianna. Era come un fiore, un fiore bisognoso di cure ma anche delicato, con i petali pronti a staccarsi, a seccarsi da un momento all’altro. Ne avevano cura come si fa con una foglia di vetro, che non deve mai toccare terra o si rompe in mille pezzi. Oggi comprendo che non avevano altra scelta. Lei era davvero di vetro. E comunque, si è spaccata in mille pezzi lo stesso.
Carmen Salis racconta, magistralmente e senza remore, sua sorella Gianna. Sì, è vero, racconta la sua malattia, ma non si ferma qui. Con ferma risolutezza, dona ai lettori il proprio passato, o meglio, quella parte di passato legata a Gianna. Racconta della difficoltà legata al bipolarismo della sorella e del percorso dell’accettazione, ripido e astruso, di una patologia che non permette pensieri normali, percorsi consueti.
Racconta il disagio che i reparti psichiatrici trasmettono. Le urla strazianti, la perdita di dignità che accompagna la perdita della mente, l’umiliazione dell’essere spogli e non solo di vestiti ma persino di ciò che si era.
Racconta di dottori poco attenti, poco empatici, poco comprensivi. Dottori che non vedono oltre gli occhiali posati sui loro nasi, e che sono capaci – convinti forse di essere dei salvatori – di uccidere una persona senza che il suo cuore cessi di battere. La terapia con il litio, lo smarrimento di sé. Gusci vuoti senza più un nucleo.
È un racconto di disperazione, sì, ma anche d’amore. Perché Carmen Salis amava quella sua sorella speciale. La amava come si amano le persone della famiglia che un po’ si odiano anche, quelle con le quali si è legati da un filo inscindibile e dalle quali non ci si può immaginare lontani. La amava da sorella minore, con quel velo di invidia del quale da grandi ci si vergogna – ai bambini non è spesso chiaro che persone diverse hanno bisogno di diverse manifestazioni di affetto genitoriale – e con una ammirazione che andava oltre tutto il resto.
La amava e la voleva per sé; ecco perché la sua perdita le ha lacerato l’anima. Aveva già pagato il pegno alla vita con la morte dei suoi genitori. Perché un destino tanto crudele per la sua amata sorella?. Questo interrogativo percorre l’intero libro e si pone come domanda silenziosa.
Un racconto che odora di dolore, di coraggio, d’amore, di morte. Di rimpianto, almeno un po’, certamente di cordoglio. Di bisogno, impellente e impossibile da quietare, di gridare al mondo quanto Gianna meritasse un’esistenza migliore, quanto fosse eccezionale e quanto la scrittrice Carmen Salis la considerasse speciale.
Gianna. Lei, era sua sorella.
«Solo uno, dammi un giorno dei tuoi», spesso mi chiedeva. Gliene ho dati di giorni. Le ho dato tutto il tempo che riuscivo a rubare a me stessa, ai miei figli e a mio marito negli anni a seguire».
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