Porte sfondate, rifiuti ed escrementi. Il nuovo lungomare Sant’Elia in mano ai vandali
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Quando Daniele Pateri inizia a parlare, lo fa con un tono misurato, quasi pacato. Ma mentre racconta, si capisce subito che dietro quella calma ci sono undici anni di battaglie, paure, sorprese inattese e un amore, quello per sua moglie Marta, il piccolo Lorenzo, per la Vita, che ha resistito a tutto.
«Undici anni fa, i medici mi diedero due anni di vita», comincia così la storia di Daniele, 47enne di Quartu Sant’Elena. «Soffrivo di una cardiomiopatia sempre più grave. Ma l’amore è stato più forte del dolore. Mi sono sposato con Marta, la mia amata moglie, nella cappella dell’ospedale Brotzu. Ho battezzato mio figlio Lorenzo. Poi, con un volo dedicato, sono stato trasferito a Milano, all’Ospedale Niguarda, e un giorno è arrivato un cuore dal cielo. È allora che è cominciata la mia rinascita».
«Quando mi dissero che il mio tempo era poco…», esita un istante, «lì ho capito davvero cosa significa guardare in faccia la propria vita.» Era giovane, innamorato di Marta, e padre da soli due mesi del piccolo Lorenzo. «Avevamo appena iniziato a immaginare il futuro, e all’improvviso ci veniva strappato dalle mani.» Daniele parla, come se il ricordo fosse ancora vivo. E in effetti lo è.
Ricordando il giorno in cui hanno deciso di sposarsi, Daniele sorride, un sorriso che è insieme nostalgia e gratitudine. «Io e Marta ci siamo sposati nella chiesa dell’ospedale. Non so spiegare quanta emozione ci fosse in quella stanzetta… medici, infermieri, OSS, le Crocerossine, suor Regina, le direttrici del Brotzu… tutti lì, tutti impegnati a preparare qualcosa per noi. Hanno addobbato la stanza, la corsia, persino la mia sedia a rotelle. E poi un buffet, organizzato da loro. Sembrava la scena di un film. Nessuno ci avrebbe creduto se non l’avesse visto con i propri occhi.»
Poco dopo quel matrimonio speciale, arriva la svolta. «Un nuovo cuore.» Lo dice lentamente, come se quelle due parole avessero un peso sacro. «È difficile spiegare cosa significhi sapere che dentro di te batte il dono più grande che qualcuno possa ricevere. Io lo chiamo il mio secondo inizio.» Da quel momento, Daniele decide che non può tenere tutto per sé. Che la sua storia deve diventare qualcosa di utile, qualcosa che possa arrivare a chi si sente perso.
Così ha scritto un libro, La Stanza della Speranza. «Non è un memoriale per compiacere me stesso. È per chi soffre, per chi si sente al limite, per chi crede di non avere più niente a cui aggrapparsi. Qualcuno mi ha detto che il libro gli ha restituito coraggio. Questo, per me, vale tutto.» E’ una storia vera, piena d’amore, capace di scuotere e confortare allo stesso tempo.
Daniele aggiunge un’ultima frase, quasi sussurrata: «Io sono vivo perché qualcuno, un giorno, ha deciso di donare. E perché tanta gente ha scelto di prendermi per mano. Il minimo che possa fare è raccontarlo, condividerlo, per dare anche solo un briciolo di speranza a chi pensava di averla persa, come me». La sua è una storia che nasce in un reparto d’ospedale e che oggi continua a parlare a chi ha bisogno di credere che, anche quando tutto sembra finito, qualcosa può ancora cambiare.