Lo sapevate? In Sardegna si praticavano operazioni al cervello già migliaia di anni fa.
Pochi lo sanno, ma la Sardegna custodisce una delle testimonianze più antiche e sorprendenti di medicina e chirurgia nel Mediterraneo: migliaia di anni fa, infatti, sull’isola venivano effettuate vere e proprie operazioni al cervello, con tecniche tanto rudimentali quanto efficaci.
La prova si trova al Museo Sanna di Sassari, dove è esposto un cranio con fori ben visibili, frutto di una trapanazione cranica risalente a epoche remote. Le prime tracce note di queste pratiche arrivano dagli studi sui resti umani rinvenuti nella tomba di Scaba e Sarriu di Siddi, datati tra il Neolitico e l’Età del Rame. In quell’epoca remota la cultura di Bonnannaro conosceva già questo tipo di interventi, che potevano essere singoli o multipli, con l’asportazione di rondelle ossee dalla calotta cranica. Un caso in particolare ha colpito gli studiosi: un individuo che subì ben quattro trapanazioni in vita, sopravvivendo ai primi tre interventi. La formazione di calli ossei intorno ai fori è la prova scientifica della guarigione, segno che chi eseguiva tali operazioni possedeva una sorprendente abilità tecnica e che i pazienti erano in grado di continuare a vivere anche dopo la fuoriuscita del materiale cerebrale. In alcuni casi i reperti mostrano perfino il reimpianto della rondella ossea, a testimonianza di una conoscenza anatomica che supera ogni previsione rispetto alle capacità che si attribuivano a comunità tanto antiche. Le motivazioni di queste pratiche non sono del tutto chiare, ma gli archeologi e gli antropologi ipotizzano che potessero avere un duplice significato, medico e rituale. Da un lato, infatti, potrebbero essere state eseguite per ridurre la pressione provocata da emorragie cerebrali, curare ferite alla testa o persino tumori, dall’altro potrebbero avere avuto un valore magico-religioso, ad esempio per liberare il malato da spiriti maligni in caso di epilessia o altre patologie che venivano interpretate come possessioni.
A confermare la diffusione e la continuità di queste operazioni è il caso della grotta di Sisàia, a Dorgali, dove venne sepolta una donna intorno al 1800 a.C. e il suo cranio mostra i segni inequivocabili di una trapanazione in vita con tanto di reimpianto osseo. Questo porta gli studiosi a ipotizzare l’esistenza di figure che, a metà tra medici e stregoni, avevano maturato competenze approfondite di anatomia e chirurgia, tramandando tecniche tanto ardite quanto efficaci. E se gli strumenti dei nostri antenati erano semplici, la scelta delle materie prime non era casuale: l’ossidiana, abbondante in Sardegna, era una pietra vulcanica tagliente come il vetro, capace di garantire incisioni nette e precise. Non a caso, recenti scoperte avvenute a Ikiztepe, un insediamento turco sulle rive del Mar Nero, confermano che già all’inizio dell’Età del Bronzo gli uomini praticavano operazioni simili utilizzando bisturi in ossidiana. Gli scavi hanno restituito numerosi teschi con cicatrici e segni di intervento, mentre quattordici dei circa settecento crani ritrovati presentano fori eseguiti con precisione chirurgica. Le aperture rettangolari sul cranio mostravano tentativi di guarigione, il che significa che i pazienti non solo sopravvivevano all’intervento ma riuscivano a vivere ancora due o tre anni, il tempo sufficiente perché le ossa cominciassero a richiudersi. In Sardegna, così come altrove, queste testimonianze ribaltano l’immagine di comunità primitive incapaci di affrontare la malattia e dimostrano invece una sorprendente capacità di osservazione, sperimentazione e cura, a metà tra scienza e ritualità. È un patrimonio che racconta quanto l’ingegno umano abbia cercato da sempre soluzioni per combattere dolore e malattia, e quanto l’isola abbia rappresentato un laboratorio di saperi medici ben prima che la civiltà nuragica lasciasse le sue imponenti torri di pietra.
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