Lo sapevate? Nella Sardegna nuragica il martello era uno strumento di morte

I fautori della teoria del nuraghe-tempio sostengono che all’interno dei grandi edifici a forma troncoconica si svolgevano i riti religiosi. Oracolo, incubazione, sì, ma anche altri... Quelli relativi alla nascita, alla pubertà, ai matrimoni o allo scongiuro di malattie o pestilenze.
Lo sapevate? Nella Sardegna nuragica, il martello non era solo uno strumento di lavoro, ma veniva anche utilizzato come arma di morte, ricoprendo un ruolo che oggi può apparire inaspettato e inquietante. Questo dettaglio si inserisce in un contesto culturale e simbolico affascinante, legato ai grandi edifici troncoconici, i celebri nuraghi. Secondo i sostenitori della teoria che li identifica come templi, al loro interno si svolgevano riti religiosi complessi e carichi di significato. Oltre alle pratiche di oracolo e incubazione, che evocano immagini di divinazione e comunicazione con il divino, i nuraghi erano teatro di cerimonie profondamente legate alla vita e alla comunità. Si celebravano riti di nascita, simboli di un nuovo inizio e continuità, passaggi di pubertà che segnavano il delicato passaggio all’età adulta, matrimoni che univano famiglie e rafforzavano i legami sociali, e rituali per scongiurare malattie o pestilenze, in cui il sacro e la necessità di protezione si intrecciavano indissolubilmente.
Una pratica comune pare fosse quella dell’uccisione degli anziani – del resto, attestata in tutte le zone della Sardegna e in tutti i popoli primitivi – mediante metodi brutali. Mica una morte leggera, quella che veniva riservata loro: picchiati selvaggiamente con dei bastoni, venivano poi spinti nei dirupi.
La spiegazione c’è ed è anche logica: nelle tribù (che lottavano costantemente per la sopravvivenza) non si poteva pensare anche a chi, per età avanzata o malattia, non fosse più in grado di badare a se stesso. Pensiamo poi agli spostamenti: era più gravoso che altro.
Alcuni sostengono che questo rito avvenisse in un clima di profonda religiosità, all’interno del nuraghe. Secondo alcune teorie, i templi sarebbero sorti vicino a voragini in cima a colli proprio per questa macabra motivazione. Di questa pratica, si conserva memoria in molti posti. A Gairo, ad esempio.
Rito analogo a quello della soppressione dei vecchi, è quello dell’uccisione dei malati. Più o meno, ci sono le stesse motivazioni.
“Accabbadoras”, questo il nome delle donne che mettevano fine alle sofferenze a partire dall’epoca nuragica e fino al secolo scorso.
Massimo Pittau, alla ricerca di connessioni tra sardi nuragici ed Etruschi, avrebbe trovato a Perugia uno specchio con una raffigurazione di Atropo, la parca che aveva il compito di tagliare il filo della vita: tra le sue mani, un matzolu simile al martello dell’accabbadora. Quello strumento, quindi, aveva funzione funebre-funeraria, di “Buona morte”.
Il colpo di martello quindi era la fine delle sofferenze, non certo una punizione.
Il non morire era, nell’isola, una punizione. Era peggio della morte stessa.
“101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere”, Antonio Maccioni, Newton Compton

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