«Di disturbi di comportamento alimentare si muore»: la storia della cagliaritana Roberta Mei
Anoressia, bulimia, ortoressia, binge eating, vigoressia sono tutti disturbi del comportamento alimentare, e spesso – se non curati adeguatamente – portano alla morte. La storia della 32enne cagliaritana Roberta Mei.
«I disturbi del comportamento alimentare (abbreviati nella sigla DCA, ora diventata DAN: disturbi dell’alimentazione e della nutrizione) rientrano tra le patologie psichiatriche più subdole, al punto che è molto difficile accorgersi di soffrirne. In primis perché viviamo immersi nella cosiddetta diet culture, quella che impone di evitare i carboidrati la sera e di prepararsi alla prova costume, dunque è facilissimo che le abitudini di un DCA passino per comportamenti nella norma.»
Inizia così il racconto di Roberta Mei, 32enne cagliaritana che ora abita a Quartucciu, che racconta la sua storia – a lieto fine, fortunatamente – con questi subdoli e maligni disturbi che sempre più spesso portano alla morte.
«All’inizio della malattia, io adottai infatti quelle che chiamo le “abitudini socialmente accettabili di un DCA”: bandii pane, dolci e fritti dalla tavola, cominciai a temere lo zucchero e a digiunare ogni tanto (peccato che poi non riuscissi neanche ad alzarmi dal letto)» racconta. «In quel periodo della mia vita avevo un fortissimo bisogno di controllo e, per ritrovarlo, lo esercitavo sul cibo. La mia mente sembrava un disco rotto: rimuginavo continuamente sulla lista di ciò che avevo mangiato. I pensieri intrusivi erano un sottofondo permanente, come un acufene, non si fermavano nemmeno mentre parlavo con qualcuno. Iniziarono quando avevo quasi 24 anni, ne presi coscienza a 26: ecco quant’è lunga la strada verso la consapevolezza di un DCA.»
Ma non solo: a Roberta sembra normale proibirsi pasta o riso a pranzo, se a colazione mangia i cereali. E le sembra normale persino l’amenorrea. «Mi sembrava normale sentirmi “sporca” se mangiavo una fetta di pizza.»
Nei primi anni, Roberta soffre anche di ortoressia, quel DCA, che sarebbe l’ossessione per il cibo sano e per la ricerca della purezza alimentare: «Non significa solo mangiare sano, ma farne il perno della propria esistenza e sentirla crollare se si viene meno alle proprie rigidissime regole. Per spiegare la differenza tra anoressia e ortoressia, io faccio sempre l’esempio dell’avocado e del biscotto: nell’ortoressia è meglio il primo, mentre nell’anoressia, un singolo biscotto messo a confronto con un intero avocado, rappresenta il male minore. Nell’anoressia si temono le calorie, nell’ortoressia gli ingredienti ritenuti nocivi.»
Ma Roberta, che ormai fa anche sensibilizzazione sul tema per aiutare persone nella sua stessa situazione a uscire da questo tunnel, spiega che ce ne sono davvero tanti di DCA pericolosi: «Altri disturbi alimentari, di cui io non ho sofferto, sono invece il binge eating (abbuffate che, al contrario della bulimia, non sono seguite da condotte di eliminazione come il vomito) e la vigoressia (ossessione volta al mantenimento di un’alta percentuale di massa muscolare). L’anoressia è il terrore del pieno, il binge eating il terrore del vuoto, ma vengono sempre da un problema col controllo, che sfocia nella perdita della propria identità e nella ricerca di questa nel cibo: è allora che le nostre vere paure prendono le sembianze di un piatto di pasta.»
A 26 anni Roberta vive a Roma dove studia recitazione.
«A un certo punto, mi ritrovai a non cercare più provini perché i miei unici desideri erano diventati andare in palestra e pianificare i pasti. Tornai a Cagliari, ma peggiorai ulteriormente. Sprofondai nel conteggio ossessivo delle calorie, finché non potei più ingoiare neanche una rotellina di cetriolo senza averla pesata. Quanto al mio peso, scese sempre più in basso, ma sottolineo come tutto ciò che accade al corpo sia solo conseguenza della sofferenza mentale: prima che arrivasse il sottopeso, io ero già malata da almeno tre anni. C’è chi al sottopeso non arriva proprio, ma questo non delegittima la gravità delle sue condizioni e l’urgenza di curarsi.»
Il punto più basso lo tocca nel 2019, a 28 anni.
«Esasperata, decisi di chiedere aiuto (ero già – e sono tuttora – seguita da una psicologa nel privato, ma avevo bisogno di un supporto più specifico): mi rivolsi a un centro privato, che frequentai per una fase di valutazione e che mi fornì la diagnosi di anoressia grave in fase acuta in comorbidità con sintomi depressivi. Purtroppo non potei farmi seguire da loro a causa dei costi proibitivi, ma mi aiutarono tantissimo a uscire dalla negazione in cui ero immersa nonostante avessi chiesto aiuto. Mi rivolsi alla sanità pubblica: arrivai al dipartimento dei disturbi alimentari della Asl di Cagliari, ma qui ricevevo un solo appuntamento al mese. Questo mi tolse motivazione e la consapevolezza di quanto fossi malata andò nuovamente a scemare. Finché, a gennaio 2020, ci furono due svolte fondamentali: chiesi di fare una MOC e scoprii a nemmeno 29 anni di essere in una condizione di osteoporosi (classica conseguenza dei DCA, per via dell’amenorrea). Vidi per la prima volta ciò che stavo facendo al mio corpo e piansi per questo anziché per una pizza. Nello stesso periodo, alla Asl venni finalmente affidata a una nutrizionista. Le diedi fiducia e mi convinse ad aumentare le porzioni. Poi, a marzo, il lockdown: per circa tre mesi, non ebbi contatti con la Asl. Mi rimasero solo le videochiamate con la psicologa privata, ma decisi che non sarei tornata indietro e continuai ad aumentare l’introito calorico di mia iniziativa. Misi su qualche chilo, ma la schiavitù della bilancia e dei conteggi persisteva. Finché, a ottobre, presi il Covid-19: feci un fioretto e giurai che, se ne fossi uscita incolume, non avrei più contato le calorie. Smisi la mattina dopo.»
Insomma, come spiega, a salvarla è la paura: «Mi ha restituito lucidità quando vedevo solo una nebbia densa e grigia. Guarire significa accogliere il ritorno del desiderio: quello di vivere un’emozione autentica anziché rincorrere un ideale di perfezione illusoria. È necessario trovare qualcosa che riaccenda dentro. A me ha sicuramente aiutato, poco dopo aver smesso di contare le calorie, scoprire i corsi di scrittura creativa che frequento online. E poi la musica dei Måneskin, che mi trasmette tanta energia. A fine marzo sono andata a sentirli, la sera del mio compleanno hanno suonato a Roma: sono tornata nella mia seconda città per la prima volta da guarita ed è stata la chiusura di un cerchio. Ha spazzato via tutte quelle giornate in cui toglievo il pigiama soltanto per salire sulla bilancia.»
Ma non solo: la trentaduenne fa una doverosa precisazione: «Mi viene da dire che sono guarita nonostante le istituzioni, invece che grazie a queste. Trovare professionisti davvero preparati è difficile, a partire dai medici di base, che andrebbero formati sull’argomento: la mia, quando provai a raccontarle ciò che stavo vivendo, mi disse di “non fare così” – come se avesse davanti una bambina capricciosa invece di un’adulta malata. Mi chiese il peso e, sentendo la mia risposta, esclamò: “E io che credevo di essere magra!”. Infine, a mo’ di ciliegina sulla torta, mi raccomandò di “mangiare un po’ di tutto”. Ovviamente, cambiai medico.»
Il percorso giusto, ideale per trattare questo genere di casi? Per la Mei è quello dove un DCA viene riconosciuto e curato tempestivamente: «Ma questo non accade quasi mai» dice.
«Pensiamo solo che esistono strutture a cui si ha accesso con un IMC (indice di massa corporea) di 13, ma non di 14: come se 14 fosse sano! Tra l’altro, una persona può essere gravissima anche con un IMC di 20. Nella sanità pubblica mancano le strutture e il personale, quella privata presenta costi assurdi. Per uscirne occorre un buon percorso di psicoterapia, monitoraggio psichiatrico degli eventuali farmaci, supporto nutrizionale. Una famiglia non può finire sotto un ponte per avere tutto questo. Occorre fare prevenzione tramite adeguate campagne informative, non solo a ridosso della giornata del Fiocchetto Lilla del 15 marzo. Servono centri di cura specializzati in ogni Regione e serve che questi siano economicamente accessibili per chiunque. Infine, è importantissimo che i professionisti sanitari, i docenti scolastici e gli allenatori sportivi vengano formati al riguardo.»
Adesso Roberta Mei usa i social per sensibilizzare sull’argomento.
«Capita che mi scrivano genitori preoccupati perché temono che i loro figli stiano sviluppando un DCA: posso solo immaginare il senso d’impotenza che provano. Io consiglio sempre di non giudicarli e non forzarli in alcun modo, ma provare invece a creare il terreno fertile per un dialogo onesto e mai accusatorio. Ovviamente so che non è facile, spesso la negazione della malattia è fortissima, perché un DCA nasce dove serve: è come una stampella, un riparo dalla vita, un rifugio che isola e protegge proprio come una bolla. Una bolla a cui, però, crescono le sbarre. Vorrei dire ai familiari di chi ne soffre di non colpevolizzarsi e di allearsi insieme contro la malattia: il loro ascolto, la loro empatia e la loro semplice presenza non giudicante durante una crisi, sono una risorsa preziosissima. A chi c’è dentro e non ha il supporto della famiglia, invece, dico: tu devi guarire a prescindere dal sostegno che percepisci attorno. Guarisci alla faccia loro.»
Tempi difficili, questi, e non c’è giorno in cui una persona non rischi di morire di DCA.
«È in corso una vera e propria epidemia,» spiega Mei «ma la classe politica vive nel suo beato regno di privilegio, dall’alto del quale se ne strafrega. Abbiamo una Presidente del Consiglio che, dopo aver dato delle deviate alle persone malate di DCA, ha dimostrato di non conoscere la differenza tra binge eating e obesità: quest’ultima non è un disturbo alimentare, al massimo può esserne conseguenza. Alla mancata risposta delle istituzioni si aggiunge una narrazione dei disturbi alimentari parziale e stereotipata, fatta di ossa e sondini danzanti su TikTok. È importante sottolineare che tante persone sono morte di DCA da normopeso. È importante sottolineare che tante sono di sesso biologico maschile. È importante sottolineare che tante sono adulte – anche sopra i 40 e i 50 anni. Non è la malattia “delle ragazzine aspiranti modelle”: è una dipendenza, un pensiero ossessivo, una frattura della mente e dell’anima che spesso infetta tutto il corpo.»
Una dipendenza, come dice Mei, un pensiero ossessivo dal quale è difficile allontanarsi.
«Sento l’urgenza di portare la mia testimonianza perché ritengo sia importante far sapere a chiunque ci sia dentro e pensa che non ne uscirà mai che questo lo credevo anch’io. E alla fine ne sono uscita lo stesso. Un DCA può e deve essere un incidente di percorso, una parentesi che con le giuste cure viene chiusa. Lo scorso settembre ho ripetuto la MOC ed è migliorata tantissimo. L’osteoporosi è regredita in osteopenia e l’anno prossimo conto di vedere ulteriori progressi. Il mio corpo si è ripreso e adesso funziona alla grande. Mi sembra incredibile aver buttato tutti quegli anni dietro la paura delle calorie, di ciò che ci tiene in vita, ma non ne ho alcuna colpa e non me ne vergogno: ero semplicemente malata. Oggi mi sento libera e provo un sollievo intenso ogni volta che ricordo da quale inferno sono uscita. Per citare una canzone dei Måneskin: oggi mi sento benedetta e non trovo niente da aggiungere. La vita, senza un disturbo alimentare, PUÒ essere perfetta.»
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