Lo sapevate? Anche a Cagliari durante il Medioevo era molto diffusa la schiavitù

Nonostante nel Medioevo in Europa la schiavitù cominciasse a diminuire lentamente, lasciando il posto a nuove forme di sfruttamento, come ad esempio la servitù della gleba, numerosi documenti dimostrano come il fenomeno fosse, purtroppo, ancora molto diffuso nella Cagliari del 1400 e sino al Seicento inoltrato.
Lo sapevate? Anche a Cagliari durante il Medioevo era molto diffusa la schiavitù.
Nonostante nel Medioevo in Europa la schiavitù cominciasse a diminuire lentamente, lasciando il posto a nuove forme di sfruttamento, come ad esempio la servitù della gleba, numerosi documenti dimostrano come il fenomeno fosse, purtroppo, ancora molto diffuso nella Cagliari del 1400 e sino al Seicento inoltrato.
La schiavitù divenne comune in gran parte del continente europeo durante i secoli bui e continuò per tutto il corso del Medioevo, anche a causa delle guerre.
La presenza di schiavi a Cagliari fu molto consistente sin dal secolo XIV, e si diffuse, soprattutto nelle città, gradualmente. Prima con l’avvento degli Aragonesi, quindi con la piena dominazione spagnola. Nel ‘300 gli schiavi erano soprattutto greci e mori; nel ‘400 aumentarono gli schiavi russi, tartari, circassi ed ungari, poi a partire dal ‘500, rimasero solo gli africani del nord e dell’interno ed i levantini.
Gli schiavi cagliaritani appartenevano alle ricche famiglie nobiliari che abitavano il quartiere di Castello; in città avere uno schiavo era sinonimo di prestigio e ricchezza.
Il prezzo medio di uno schiavo variava tra le 80 e le 115 lire ma, se era anziano o con qualche difetto fisico, scendeva sotto le 60, mentre un uomo robusto o una giovane donna poteva costare anche 160 lire. Dagli atti notarili risulta che pagando gli schiavi potessero affrancarsi.
Il padrone era responsabile della custodia dello schiavo, come riporta nel suo testo “Castello tanto tempo..una città straniera sul colle” Fabia Cocco Ortu: “Che ogni persona..deve tenere detti schiavi rinchiusi e custoditi sotto chiave in modo che non possano uscire senza volontà del padrone..nessuno schiavo saracino che faccia turno settimanale di servizio può andare senza ferri alle gambe che pesino sei libbre, ne passare per Castello senza guardia dopo che la campana la sera avrà suonato il vespro”.
Gli schiavi al Castello di Cagliari , dunque non potevano girare liberamente e senza catene e in più era dimostrato che, non solo i pirati barbareschi catturavano i cristiani per rivenderli come schiavi ma avveniva anche il fenomeno opposto: le navi di cristiani si spingevano fino al nord Africa per catturare uomini e rivenderli.
Come riporta Araldica Sardegna molti degli schiavi erano donne che arrivavano a Cagliari adolescenti o giovani, dai 18 ai 30 anni, e raramente di età più tarda, sino circa ai 35 anni. Le loro condizioni di vita erano dure ma sicuramente meno rispetto ad altri paesi europei.
Gli schiavi rappresentavano infatti un capitale ingente e nessun padrone correva il rischio di distruggerlo o rovinarlo.
I documenti d’archivio riportano di una giovinetta russa di 13 anni, che aveva alle spalle una consistente trafila di mercati di schiavi e che nel 1455 venne ceduta da Pietro Carusses, argentario del Castello di Cagliari, a Francesco Marinon, mercante dello stesso Castello, come una merce qualunque.
Le aste degli schiavi predati dalle navi cristiane si tenevano a Cagliari e le donne e gli uomini erano visti come partite di merce.
I casi di violenza e di restrizione della libertà ritrovati sono commessi a timore di fuga e, quindi, di perdite di capitale, se non a sadismo.
Nel 1566, Giovanni Selles di Cagliari teneva duramente incatenato il suo schiavo Massant, ma appena tre amici di questo diedero una cauzione di 60 ducati d’oro per la sua eventuale fuga, il padrone lo liberò subito dai ceppi in cui lo costringeva per timore di perderlo.
Misure di questo genere contro le schiave erano più rare, perché rari erano i tentativi di fuga delle donne. Le schiave entravano, in genere, in famiglie abbienti, nobili o alto borghesi e costituivano uno status symbol del periodo. Avere molti schiavi e schiave erano indice di grande ricchezza e naturalmente più giovani, sani ed esotici erano, più erano costosi. Le schiave perciò venivano vestite, nutrite, curate se ammalate, e si occupavano di lavori domestici non pesantissimi, che invece erano riservati agli uomini.
Le schiave non cristiane venivano convertite, ma talvolta il padrone sardo, era abbastanza tollerante in questioni di fede, come prova l’usanza diffusa di affidare i propri figli battezzati agli ex padroni, da parte dei liberti non convertiti al cristianesimo, quando lasciavano Cagliari per ritornare ai paesi di origine, dove sarebbero stati considerati degli infedeli.
Altro elemento positivo dello schiavismo a Cagliari, era costituito dal permesso di svolgere lavoro retribuito a favore di terzi. Ciò consentiva a molti schiavi di autoriscattarsi e riscattare mogli, sorelle e figli, e spesso ad impadronirsi delle tecniche di un lavoro artigianale col quale assicurarsi l’esistenza da liberi.
Purtroppo però la schiava era anche il trastullo sessuale del padrone, sempre a portata di mano. Talvolta la schiava trovava nei rapporti carnali col padrone la salvezza per sé ed i suoi figli.
Persino i sacerdoti avevano schiave.
Le schiave che non riuscivano a riscattarsi erano destinate ad una misera sorte.
Divenute rapidamente indesiderabili e invendibili per decadenza fisica, venivano sfruttate fino a che reggevano e venivano regalate o addirittura venivano lasciate morire: l’Ospedale di Sant’Antonio, infatti (che si trovava dove oggi c’è l’Ostello della Gioventù alla Marina ed era uno degli ospedali più antichi di Cagliari; l’altro si trovava dove oggi sorge il Palazzo Accardo) era gratuito per gli indigenti liberi ma non per gli schiavi sotto padrone.

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