Lo sapevate? Perché In Sardegna e soprattutto nella zona di Cagliari è meglio non pronunciare la parola “cavallo”?
Ormai lo sanno in tanti ma qualche continentale e qualche straniero che lo utilizza così, sfrontatamente e inconsapevolmente, c’è sempre. Mettiamo in guardia loro perché noi sardi sappiamo benissimo perché non si può pronunciare la parola “cavallo”..
La Sardegna! Terra di misteri, tradizioni ancestrali e… peculiari tabù linguistici. Oggi, cari amici, ci addentreremo in uno degli aspetti più curiosi e divertenti della cultura sarda, un vero e proprio campo minato verbale che ha fatto sudare freddo più di un turista ignaro e ha causato innumerevoli momenti di imbarazzo e ilarità. Stiamo parlando, ovviamente, del divieto non scritto ma ferreamente rispettato di pronunciare la parola “cavallo” a Cagliari e nel sud della Sardegna.
Immaginate la scena: siete appena arrivati nell’Isola, magari per una vacanza, e state tranquillamente chiacchierando con alcuni locali in un bar di Cagliari. Improvvisamente, nel mezzo di una frase innocente sul vostro amore per l’equitazione, pronunciate la fatidica parola. Il silenzio cala improvvisamente, seguito da sguardi divertiti e qualche risatina soppressa. Poi, inevitabilmente, arriva la domanda: “Hai detto c……?”. E prima che possiate rendervene conto, vi ritrovate bersaglio di un corale “Ti c……!”, che in italiano suonerebbe più o meno come “Che quell’animale a quattro zampe ti possieda ardentemente!”.
Benvenuti nel meraviglioso mondo del “ti c……” (nella sua versione compressa “tigò”), un’usanza così radicata nella cultura del sud della Sardegna da essere diventata quasi un riflesso pavloviano. Ma da dove viene questa curiosa tradizione?
La storia affonda le sue radici in tempi remoti, quando i nostri antenati sardi, osservatori attenti della natura, notarono alcune “peculiarità anatomiche” del fiero destriero che lo trasformavano, per usare un eufemismo, in un “inquietante pentapede con un’unica idea in testa” (naturalmente mutuata dall’uomo). Aggiungete a questo il disinibito comportamento sessuale di questi animali e la loro totale mancanza di pudore (del tutto giustificata, essendo rispettabilissime bestie), ed ecco che avete tutti gli ingredienti per trasformare il nobile equino in un simbolo di prodigiosa sessualità nell’immaginario popolare.
Ma non pensiate che questa usanza sia limitata ai bar o alle chiacchiere tra amici. Oh no! Ha permeato così profondamente la società sarda che persino stimati professionisti e anziani irreprensibili non possono trattenere un sorriso (e spesso la fatidica risposta) quando sentono la parola proibita. È diventata una sorta di gioco linguistico, un modo per rompere il ghiaccio, un test per distinguere i locali dai “continentali” o dagli stranieri.
La situazione è diventata così estrema che i sardi hanno sviluppato un intero vocabolario alternativo per evitare di pronunciare la parola incriminata. “Signora”, “nascondilo” (dal sardo campidanese “cuaddu”, che significa sia cavallo che “nascondilo”, imperativo del verbo “cuai”, nascondere), sono solo alcuni dei vocaboli utilizzati. E non pensate di cavarvela (ops, scusate il gioco di parole!) usando sinonimi come equino, asino, asinello o pony. Ormai il tabù si è esteso a coprire praticamente tutti i mammiferi a quattro zampe o quasi..
Ma attenzione: il vero pericolo si nasconde nelle domande a trabocchetto. Come chiamereste l’altezza della vita dei pantaloni? E quella succulenta bistecca con aglio e prezzemolo che avete appena ordinato? E che dire del ritornello della famosa canzone “Samarcanda” di Roberto Vecchioni? Per non parlare dei proverbi: “L’animale in questione campa e l’erba cresce…”. Ogni conversazione diventa un campo minato, ogni frase un potenziale innesco per il famigerato “ti c……”.
Questa peculiare usanza linguistica ci offre uno spaccato affascinante della cultura sarda, un mix di umorismo irriverente, tradizione ancestrale e gioco sociale. È un esempio perfetto di come una semplice parola possa assumere significati e connotazioni completamente nuovi all’interno di una comunità, trasformandosi in un codice condiviso, un segno di appartenenza, un modo per distinguere chi è “dentro” da chi è “fuori”.
Per i visitatori, questa particolarità linguistica può sembrare inizialmente sconcertante, ma una volta compreso il gioco, diventa spesso una fonte di divertimento e un modo per integrarsi più rapidamente con i locali. Dopotutto, cosa c’è di meglio di una buona risata condivisa per rompere il ghiaccio?
Tuttavia, è importante ricordare che, come ogni aspetto culturale, anche questo va trattato con rispetto. Ciò che può sembrare divertente in un contesto informale potrebbe non essere appropriato in situazioni più formali o professionali. La chiave, come sempre quando si viaggia, è l’osservazione e l’adattamento.
In conclusione, la prossima volta che vi troverete in Sardegna, e in particolare a Cagliari o nel sud dell’Isola, ricordate di stare sempre sul chi vive. Evitate di pronunciare la parola proibita, a meno che non siate pronti a scatenare una tempesta di risate e battute. E se proprio non potete farne a meno, almeno assicuratevi di conoscere la risposta appropriata. Chi sa, potreste scoprire che padroneggiare questo curioso aspetto della cultura sarda vi aprirà porte inaspettate, trasformandovi da semplici turisti in ospiti privilegiati di questa meravigliosa isola e della sua gente calorosa e spiritosa.
E ricordate: in Sardegna, a volte, il silenzio è d’oro… soprattutto quando si parla di certi quadrupedi! Ah, dimenticavo, naturalmente vale anche al plurale..
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