Immaginate un uomo così eccentrico da russare di giorno e cantare di notte. Così contraddittorio che, pregato di esibirsi, si zittiva come una statua, ma poi — senza preavviso — iniziava a cantare senza sosta, come posseduto da Bacco in persona. Questo era Tigellio, un poeta e musico sardo del I secolo a.C., personaggio tanto bizzarro quanto affascinante, che riuscì nell’impresa non facile di farsi detestare da due dei più temibili polemisti dell’antica Roma: Cicerone e Orazio.
Cicerone non lo sopportava. Lo definì senza mezzi termini «più pestilenziale della sua terra» — e considerando che non aveva grande stima dei sardi in generale (li chiamava “ladroni con la mastruca”, riferendosi al ruvido mantello dei pastori), questo era un insulto di rara intensità. Tigellio, a suo dire, era un “pezzente che si dava arie da gran signore”, ma il vero problema forse era un altro: era amico intimo di Giulio Cesare, acerrimo rivale dell’Arpinate. I due si scontrarono anche in tribunale, il che non contribuì certo a migliorare il loro rapporto.
Nemmeno Orazio, che pure era poeta come lui, ne parlava bene. Lo descriveva come un bastian contrario nato, sempre pronto a fare l’opposto di ciò che gli veniva chiesto. Ma sotto l’ironia tagliente dei suoi detrattori, affiora il ritratto di un uomo fuori dal comune. Tigellio era istrionico, imprevedibile: ora correva come inseguito da un nemico invisibile, ora passeggiava con solennità sacerdotale; adorava il lusso, ma proclamava di poter vivere con poco: «un cucchiaio di sale e una veste ruvida», diceva.
Era generoso fino all’incoscienza, tanto che al suo funerale — racconta sempre Orazio — si presentò una variopinta processione di emarginati: ciarlatani, mimi, prostitute, truffatori e mendicanti. Tutti accomunati da una cosa: in vita, Tigellio aveva dato anche a loro qualcosa.
E poi c’è un dettaglio affascinante: secondo alcuni studiosi, fu proprio lui — con le sue origini sarde — a portare per primo a Roma l’eco del canto a tenore e forse anche le note ipnotiche delle launeddas. I suoi canti erano per lo più dedicati a Bacco, il dio del vino, della follia e dell’arte. Nessuna delle sue composizioni ci è giunta, ma chissà: forse tra le colonne delle ville romane e i brindisi dei patrizi, risuonò davvero un giorno la voce selvaggia e profonda della Sardegna.
Ah, a proposito: la famosa Villa di Tigellio a Cagliari? Non era sua. I resti archeologici che portano il suo nome furono attribuiti erroneamente al poeta in base a documenti poi rivelatisi falsi. Ma forse va bene così: un personaggio come Tigellio meritava comunque di lasciare una traccia concreta, anche solo per alimentare il mito di un sardo che riuscì a far perdere la pazienza persino ai giganti della retorica romana.
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