Sport e integrazione: migranti e calciatori sardi insieme in campo per dare un calcio al razzismo
80 giovani richiedenti protezione internazionale, giunti dai centri di accoglienza di Villanovaforru, Sassari, Quartu, Norbello, Portoscuso, Villasor, Sarroch, Sanluri, Villacidro, Iglesias e San Nicolò Gerrei si sono confrontati, sui campi del Centro Federale Sa Rodia, a Oristano, con i calciatori
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80 giovani richiedenti protezione internazionale, giunti dai centri di accoglienza di Villanovaforru, Sassari, Quartu, Norbello, Portoscuso, Villasor, Sarroch, Sanluri, Villacidro, Iglesias e San Nicolò Gerrei si sono confrontati, sui campi del Centro Federale Sa Rodia, a Oristano, con i calciatori sardi delle rappresentanze regionali (under 15, 17 e 19) che si preparano alle prossime competizioni nazionali.
L’evento è stato promosso dalla Regione e dalla Figc Sardegna. Erano presenti l’assessore degli Affari Generali Filippo Spanu e il presidente del Comitato regionale della Federazione Gianni Cadoni. Per il 2018 sono previste altre giornate di integrazione tramite lo sport che, grazie alla collaborazione del CONI Sardegna, non riguarderanno solo il calcio ma anche l’atletica leggera. Nel prossimo mese di marzo sono previsti altri due eventi in programma nel Centro Federale di Oristano e allo stadio Amsicora, a Cagliari.
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Perché scherzosamente i sassaresi vengono definiti “impiccababbu”?

Cagliaritano africano contro sassarese impiccababbu: la faida sarda tra leggenda e campanilismo.
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Perché scherzosamente i sassaresi vengono definiti “impiccababbu”?
Cagliaritano africano contro sassarese impiccababbu: la faida sarda tra leggenda e campanilismo.
La Sardegna, terra di antiche tradizioni e fierezze intramontabili, nasconde al suo interno una rivalità storica e inossidabile che trascende il tifo calcistico per lambire gli abissi della storia, della geografia e dell’orgoglio sociale. A farla da padrone in questa contesa sono il capoluogo, Cagliari, e la città di Sassari. Sui muri di entrambe le città compaiono scritte ingiuriose che vanno ben al di là dello sfottò da curva, con appellativi come cagliaritano africano e sassarese impiccababbu a infiammare gli animi. Questa inimicizia, che molti ritengono circoscritta ai novanta minuti di gioco, affonda invece le sue radici in epoche storiche lontanissime, benché la stragrande maggioranza delle persone non ne sia consapevole.
È proprio in questo contesto di acceso campanilismo che emerge un elemento sorprendente: la rivalità non c’entra niente con una delle più celebri espressioni ingiuriose. Sì, perché il detto sassarese impiccababbu non è nato come insulto, ma dagli sviluppi di un’antica e drammatica leggenda sassarese. L’episodio, pur rivestendo i contorni della leggenda, è molto interessante e si consumò ai tempi dell’inquisizione. All’epoca, il tribunale era ospitato all’interno del castello, una struttura purtroppo abbattuta nel corso del XVIII secolo. Il boia, la cui vera identità era sconosciuta a tutti in città, viveva in una piazzola del centro storico che oggi è chiamata largo quadrato frasso, e si presenta come un angolo ben tenuto e decorato di verdi piante e ristorantini.
Ai tempi del terribile evento, però, la piazzetta fu subito ribattezzata in dialetto Pattiu di lu diauru, ovvero patio del diavolo. Il boia, interamente coperto dal suo mantello, usciva di casa tutte le mattine all’alba, per poi farvi ritorno a tarda sera. La quotidianità del misterioso esecutore fu spezzata dal macabro incarico di giustiziare un condannato a morte, imbavagliato e legato. Il rito prevedeva che il boia incappucciasse il malcapitato e lo conducesse con un carretto di legno fino alla piazza duomo per l’esecuzione, lo stesso carretto che poi utilizzava per trasportare i cadaveri dei giustiziati. Ma nel momento in cui stava per mettere il cappuccio al condannato, il boia si accorse che si trattava del suo unico figlio, un giovane scomparso da qualche tempo. Colto da una disperazione straziante, propose al giovane uno scambio di ruoli. Nessuno conosceva la vera identità del boia, per cui propose di morire lui al posto del figlio. Il giovane, pentito per i suoi delitti, abbracciò il padre piangendo e si scambiarono le vesti, portando all’impiccagione dell’uomo al posto del figlio. Un gesto di amore paterno estremo che finì per essere strumentalizzato dalla rivalità, trasformando l’eco della tragedia in un epiteto.
Ma se la leggenda ha poco a che fare con la rivalità, le fonti storiche ci raccontano una storia ben più complessa, probabilmente iniziata nel lontano 1163. All’epoca, nel giudicato di calari, l’odierna cagliari, il giudice pietro torchitorio ii subì una congiura e fu costretto a cedere il trono e rifugiarsi presso barisone ii, giudice di torres, suo fratello. L’affronto non fu dimenticato: i calaritani, agli ordini del giudice guglielmo salusio iv, attaccarono torres nel 1195, conquistando il castello del goceano, catturando la moglie del re turritano e portandola a santa igia, l’odierna santa gilla, dove fu violentata. Un episodio che dimostra quanto gli antichi sardi amassero le schermaglie “tra parenti”.
Un’altra pagina di questa faida si scrisse nel 1323, quando i sassaresi si allearono strategicamente con gli aragonesi nell’assalto a castello, l’antico nome di cagliari in epoca pisana. L’assalto portò alla conquista della città da parte degli iberici, ma la felicità sassarese durò poco: il governatore scelse proprio cagliari come sua residenza, facendo infuriare non poco i sassaresi. In seguito, le diatribe si scatenarono anche per motivi più futili e campanilistici: le due città si scontrarono per il primato della fondazione delle università e sulla supremazia delle proprie diocesi, dispute che fomentarono non poco anche il popolo.
Questa tendenza all’autonomia sassarese raggiunse l’apice quando sassari non ne volle sapere di dipendere dall’amministrazione centrale di cagliari. Nel 1795, inviò una petizione a re vittorio amedeo iii, chiedendo di poter dipendere direttamente dal piemonte. I nobili cagliaritani non si lasciarono sfuggire l’occasione, fomentando la rivolta degli abitanti sassaresi contro i nuovi padroni in un vero e proprio “divide et impera” isolano. Il campanilismo si fece più acceso in occasione della divisione della nostra isola nella provincia di cagliari e nella provincia di sassari, che correva l’anno 1861. Anche dinnanzi alla stesura dello statuto sardo da inserire nella costituzione, nell’immediato dopoguerra, la tensione si fece sentire: i sassaresi volevano che la propria città diventasse capoluogo della regione autonoma. Così non avvenne, e l’inimicizia raggiunse livelli ancor più aspri. I tempi moderni, tra battaglie per la localizzazione di enti e frecciatine sui social, non hanno affatto appianato questi dissidi. Altro che unità del popolo sardo, qui si lotta all’ultimo titolo onorifico.
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