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Aveva soltanto 18 anni e un mondo intero davanti, Kiril Kachalaba. Era arrivato tre anni fa a Cagliari, scappando dall’Ucraina martoriata dalla guerra. Cercava normalità, libertà, la possibilità di vivere da ragazzo, senza il rumore delle sirene né il timore di essere chiamato al fronte.
Nato a Užhorod, città di confine con Slovacchia e Ungheria, aveva visto la sua terra cambiare per sempre dal 2014, con l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass, poi deflagrato nell’invasione russa del 2022. Nonostante la sua regione fosse lontana dalla linea del fuoco, anche lì la guerra era una presenza costante: uomini mobilitati, rifugiati da accogliere, famiglie spezzate.
Per questo la Sardegna era diventata per Kiril una seconda casa. Qui aveva frequentato l’istituto tecnico Marconi di Cagliari, qui aveva trovato amici e nuove possibilità. A Selargius viveva con la speranza di costruirsi un futuro.
Quel futuro si è spezzato martedì pomeriggio, in via Is Maglias. Secondo le prime ricostruzioni della polizia locale, Kiril stava uscendo da via Castelli a bordo del suo monopattino quando un’auto, con a bordo turisti tedeschi, lo ha travolto. L’impatto è stato devastante. Trasportato d’urgenza al Brotzu, i tentativi dei medici si sono rivelati inutili. Kiril non ce l’ha fatta.
La sua morte non è solo la cronaca di un tragico incidente: è la fine di una storia di speranza. Kiril era arrivato per vivere, non per morire. Era uno dei tanti giovani che partono da terre difficili – e a volte anche dalla stessa Sardegna – alla ricerca di dignità, stabilità, amore. Per questo la sua vicenda ci tocca da vicino: Kiril poteva essere un figlio di tutti noi. Un ragazzo che cercava un posto nel mondo e che invece ha trovato la morte dove aveva sognato di rinascere.
Ma la sua non è solo la storia di un ragazzo venuto da lontano. È anche la nostra storia. Perché Kiril cercava qui quello che tanti giovani sardi cercano altrove. Lui è partito dall’Ucraina per sfuggire alla guerra; tanti nostri ragazzi partono dalla Sardegna per sfuggire a un’altra forma di assenza: quella del lavoro, delle opportunità, della possibilità di costruirsi una vita.
Non c’è la guerra qui per fortuna, ma c’è una mancanza che obbliga a fuggire lo stesso. C’è un dolore diverso, ma non meno profondo: quello di dover salutare i propri figli mentre cercano altrove quello che qui non hanno trovato. Kiril e tanti dei nostri giovani condividono la stessa spinta: cercare vita dove sembra negata. Lui è venuto da fuori per inseguirla, i nostri spesso devono andare via per trovarla. È un paradosso che ci deve far riflettere: non siamo stati capaci di proteggere Kiril, così come non siamo capaci di trattenere i nostri figli.
La sua morte non è solo la cronaca di un incidente. È uno specchio che ci rimanda l’immagine di un’Isola che non riesce a garantire ai giovani la sicurezza, il lavoro, la dignità di un futuro. E che finisce per tradire due volte: chi parte e chi arriva.