Is Mirrionis protagonista di un romanzo: il caso letterario di “Occhi di sale”
Is Mirrionis è un quartiere di quelli veri, vissuti, sentiti: di quelli che non se ne vanno via dal cuore e restano nelle viscere tutta la vita, che non si dimenticano e che fanno parte del DNA di chiunque ci
Is Mirrionis è un quartiere di quelli veri, vissuti, sentiti: di quelli che non se ne vanno via dal cuore e restano nelle viscere tutta la vita, che non si dimenticano e che fanno parte del DNA di chiunque ci sia nato. Questo è proprio quello che è successo a Massimo Granchi, scrittore cagliaritano nato 43 anni fa nel quartiere che, nonostante risieda da ormai 17 anni in quel di Siena, il vento di maestrale e l’aria popolare di Is Mirrionis non li ha mai dimenticati.
Ne ha parlato nel suo primo romanzo (del 2013, ndr) dal titolo “Come una pianta di cappero” tramite la protagonista, nata nel quartiere negli anni ’50 (quando Is Mirrionis stava sorgendo, si pensi che è nato nel secondo dopoguerra, ndr) e ne ha approfondito l’argomento con “Occhi di sale”, uscito due anni dopo e diventato in poco tempo in Toscana un vero e proprio caso letterario con migliaia di copie vendute. «Sono tornato nel quartiere, spiega l’autore, perché alcune tematiche di mio interesse erano rimaste inesplorate. Ho, dunque, ambientato la vita dei tre protagonisti Paolo, Nino e Matteo nati negli anni ’70, a cavallo di due secoli. Gli elementi fondativi e più incisivi della mia ispirazione sono la mia esperienza diretta e la mia città. La scrittura per me è soprattutto terapeutica ed evidentemente avevo ancora molte questioni non risolte che mi hanno ricondotto sulla strada di casa».
Scrittura come terapia e per aiutare a sentire più vicino un luogo così significativo e profondo, dove si giocava per strada e tutti ci si conosceva: «La distanza amplifica le sensazioni e quelle più vivide sono ancora legate ai luoghi della mia infanzia. Avevo la necessità di dedicare tempo ai ricordi, volevo recuperare legami mai scissi con la mia comunità per restituire un tributo di riconoscenza ai luoghi in cui sono nato e alle persone che ho conosciuto. Il lettore non merita di essere preso in giro, perciò le storie raccontate nei miei romanzi devono essere credibili». Il libro appartiene alla categoria dei romanzi di formazione: i tre amici, nonostante siano ognuno diverso dall’altro, con le proprie caratteristiche e peculiarità e la vita li porti verso scelte e direzioni differenti, crescono assieme. Ma non c’è nulla del vissuto di Massimo Granchi: «“Occhi di sale” non è autobiografico, ma è chiaramente condizionato dalle contaminazioni risalenti agli anni in cui ho vissuto a Cagliari e dalla idealizzazione dei miei ricordi infantili, amplificati dalla lontananza. Ho accettato una sfida con me stesso, per tentare di descrivere l’universo maschile. Per farlo, ho ritenuto che raccontare l’amicizia potesse offrirmi un ambito di osservazione tematica letteraria interessante e attendibile. L’ho fatto indagando il malessere sociale, i rapporti famigliari, la fragilità umana, la ricerca introspettiva e l’emancipazione personale perché ritengo che ognuno di noi, per crescere e diventare se stesso, debba mettersi alla prova e affrontare molte difficoltà. Spero di esserci riuscito!».
Ma la Is Mirrionis di oggi non è certo quella di ieri: «È mutata l’immagine che avevo delle strade, dei palazzi e dei giardini. Me li ricordo cadenti e trascurati. Oggi il quartiere sta attraversando una fase di rinnovamento, caratterizzata da maggiore ordine, pulizia e cura del bene pubblico. Anche la popolazione è cambiata. Il numero degli stranieri è cresciuto e la varietà etnica si è arricchita di nuove influenze culturali. Ho trovato che ci sia anche maggiore partecipazione e vivacità da parte di molti attori del tessuto sociale locale, impegnati nella valorizzazione delle risorse dal basso: librerie, associazioni, comitati, organizzatori di eventi, amministratori, ecc. È un processo interessante che avrà molte implicazioni positive in futuro, come una diversa percezione pubblica del quartiere e una migliore qualità della vita nel suo complesso».
Ma cosa si potrebbe cambiare per migliorare il quartiere che, come tutti i cagliaritani sanno, non è di certo facile soprattutto per i giovani? «Bisognerebbe innanzitutto partire da ciò che esiste, riconoscere e valorizzare le buone pratiche spontanee che stanno emergendo, sostenere coloro che si stanno dando da fare in prima persona, investendo nello studio o nel volontariato. Incoraggerei le risorse umane e associative disponibili per favorirne l’autonomia e la crescita, invece di trasferire modelli educativi o di recupero dall’esterno. Creerei dei comitati di ascolto e discussione, aperti e flessibili, costituiti da soggetti rappresentativi della comunità, dedicherei voci di spesa del bilancio comunale a investimenti specifici per la progettualità, la formazione e il recupero urbanistico. Mi dedicherei alla elaborazione di politiche di inserimento e reinserimento occupazionale, al sostegno sociale mirato, al monitoraggio e al tutoraggio delle situazioni critiche». Nella speranza che, per uno dei quartieri più popolosi e popolari della città, che ha di certo bisogno di crescere e valorizzare le sue risorse e unicità, resti intatta la sua anima più vera.
© RIPRODUZIONE RISERVATA