La triste storia delle bambine lavoratrici morte in miniera.
Una strage dimenticata: le giovani vite spezzate nelle miniere di Montevecchio.
Era il 4 maggio del 1871, in una delle giornate lavorative più tragiche per la storia mineraria della Sardegna, quando un crollo nelle miniere di Montevecchio spezzò le vite di undici donne e bambine. La tragedia, avvenuta in un’epoca di sfruttamento e di assenza di tutela, getta una luce sinistra sulle condizioni di lavoro a cui erano costrette le donne e le giovanissime, e rievoca in modo toccante il senso profondo e spesso dimenticato della Giornata Internazionale della Donna.
A quell’epoca, la miniera di Montevecchio, il più grande complesso di estrazione di piombo e zinco d’Europa, era un luogo di lavoro brutale. Le donne, molte delle quali vedove o ragazze orfane costrette dalla povertà a cercare un’occupazione, lavoravano per lunghe e sfiancanti giornate. La loro mansione, quella di cernitrici, era faticosissima: trascorrevano fino a dieci ore a spaccare pietre e a selezionare il materiale, il tutto sotto il controllo severissimo dei caporali, che per la minima distrazione o un momento di chiacchiere potevano togliere loro l’intera paga giornaliera. Una paga già di per sé misera e nettamente inferiore a quella degli uomini, nonostante la fatica, svolta spesso all’aperto, esposte alle intemperie o, al massimo, in baracche di fortuna.
Intorno alle 18:30 di quel fatale giorno, una trentina di cernitrici, stremate dalla fatica, si ritirarono nel dormitorio della miniera per trascorrere la notte. Molte di loro preferivano non tornare alle proprie abitazioni, spesso distanti, scegliendo di riposare su delle semplici brande in cameroni privi di ogni servizio igienico, un lusso a cui avevano da tempo rinunciato. Il dormitorio si trovava proprio sotto a un serbatoio di 80 metri cubi d’acqua, indispensabile per il funzionamento della vicina laveria. Durante la notte il serbatoio cedette, provocando il crollo del soffitto dell’edificio sottostante. Le lavoratrici furono schiacciate dalle macerie, e per undici di loro non ci fu scampo.
Dalle carte dell’epoca risulta che le autorità biasimarono apertamente la costruzione del bacino sopra il dormitorio, ritenendola estremamente pericolosa. La direzione della miniera si scusò, ma si difese sostenendo che non vi era luogo più comodo e adatto per il serbatoio. La vicenda fu archiviata, senza che nessuno pagasse per quelle vite spezzate, e il crollo fu liquidato come una “tragica fatalità”. Delle vittime, di cui non resta altro che il nome, si contano ragazze giovanissime e donne mature: le più piccole, Elena Aru e Caterina Pusceddu, entrambe di Arbus, avevano solo 10 anni. C’erano poi Anna Melis, 11 anni, e Anna Atzeni, 12, oltre alle quattordicenni Anna Peddis e Anna Pusceddu e alle quindicenni Rosa Gentila e Luigia Vacca. Più anziane erano Luigia Murtas, 27 anni, e Antioca Armas, 32, entrambe di Arbus. La vittima più matura era invece Rosa Vacca, 50 anni, di Guspini. Un tragico elenco di nomi, volti e storie di un’umanità dimenticata, sacrificata sull’altare del progresso e del profitto.
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