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È morto Stefano Benni, scrittore, poeta e giornalista tra i più amati della letteratura italiana contemporanea. Dietro le sue pagine, intrise di fantasia e satira, c’era anche un legame speciale con la Sardegna, terra che frequentava appena gli impegni glielo permettevano. Da oltre venticinque anni, infatti, tornava regolarmente nel Sinis, ospite di un amico, immergendosi in un paesaggio che considerava tra i più autentici e preziosi.
Benni non si limitava a contemplare l’isola, ma la viveva con ironia affettuosa. In un celebre scritto descriveva il Sinis come un paradiso senza “barriera camparina”, quella muraglia di yacht e panfili che a suo dire soffocava luoghi come la Costa Smeralda. Qui invece — annotava con il suo stile inconfondibile — “potete fare il bagno in lungo e in largo, l’acqua è pulita, anche se ogni tanto una maestralata porta qualche souvenir dalla Spagna”.
Le sue parole restituivano un affresco che mescolava natura, leggende popolari, sapori e incontri surreali. Parlava di spiagge leggendarie, nuraghi che sembrano giganti silenziosi, piatti capaci di mettere alla prova anche gli stomaci più allenati e fenicotteri che, al tramonto, “disegnano la parola benvenuto nel cielo”. Un racconto visionario e ironico che però custodiva una verità: l’amore sincero per una terra che non ha mai trattato come semplice meta turistica, ma come luogo dell’anima.
Anche nel dialogo con i sardi, Benni mostrava rispetto e curiosità. Intervistato a Cagliari, disse: “Gli omaggi si fanno ai morti, la Sardegna è ben viva. Io sono un meticcio, emiliano e molisano, e me ne vanto. Voi avete parole che brillano perché hanno una storia e io ve le rubo, le uso. Avere cinque lingue è una ricchezza immensa”.
Per lui la Sardegna era questo: una lingua che brilla, un mare libero, una tavola che unisce, un vento che porta storie. Con la sua scomparsa l’isola perde non solo un amico sincero, ma uno degli scrittori che più hanno saputo celebrarla con leggerezza e amore.