«Una vita di dolori e rinunce»: la vita con l’endometriosi della tortoliese Loredana Deiana
Il percorso di Loredana Deiana, che oggi non può nemmeno più lavorare: «Stare meglio anche solo 3 giorni in un mese, per me, era stata una grande conquista. Con il secondo intervento ne guadagnai altri 3. Oggi in quei giorni “mediamente buoni” riverso e cerco di svolgere tutte le cose importanti che negli altri giorni non mi è, purtroppo, possibile fare»
«Molte delle donne, affette da endometriosi come me, non hanno la possibilità di programmare le giornate. Si vive giorno per giorno, momento per momento. La nostra vita dipende dal grado di infiammazione del nostro corpo, se il dolore è gestibile e sopportabile allora indossiamo il nostro più bel sorriso e usciamo ad accogliere il mondo che sogniamo un giorno diventi, per noi, normale… anche se sappiamo che ciò non accadrà mai.»
Grazie a queste parole, della tortoliese Loredana Deiana, è ben chiaro il calvario che le donne affette da endometriosi sono costrette a subire. Un calvario fatto di dolori, di svenimenti, di incomprensione da parte delle altre persone, di momenti grigi e momenti neri, di sconforto e di – soprattutto, e che dio la benedica – di speranza.
Tutto, per Loredana, inizia intorno ai 12, 13 anni: la ragazzina, durante i giorni del ciclo mestruale, fatica persino a deambulare. I dolori addominali si estendono ovunque, anche alle gambe. «Fare pochi passi non era più semplice come negli altri giorni» racconta.
Alla sua mamma i medici dicono che è normale, che i bambini esagerano sempre quando si tratta di ricevere in cambio delle attenzioni. E alla fine persino Loredana se ne convince: pensa sia normale, tutto sommato, che tutti provino quei dolori e che la colpa sia sua perché non è capace di gestirli. «Cercavo di essere brava come gli altri e sopportavo. Un medico una mattina mi disse “devi conviverci!” ed io stupidamente, per lungo tempo, l’ho fatto.»
Terapie ormonali: ecco quello che viene suggerito per tenere a bada quei dolori insopportabili. «Il dolore,» racconta ancora «con il tempo peggiorava e si acutizzava.»
Loredana non sa cosa vuol dire stare senza quel male acuto, che non si presenta più solo i giorni del ciclo ma sempre, senza mai una tregua.
«La sofferenza era totale, l’infiammazione era tale che spesso sorgeva anche la febbre, la lombo-sciatalgia era cosa costante, l’emicrania che durava settimane non mi permetteva di avere una buona concentrazione e l’insonnia, a causa dei dolori, non mi consentiva di avere al mattino quella piacevole sensazione di benessere che un adeguato riposo regala. Soffrivo di sincopi che i medici attribuivano ad uno “stress” fisico. Tutto ciò portava ad una contrattura muscolare dell’intero corpo con conseguenze anche sull’apparato digestivo e spesso, per evitare i dolori addominali legati alla digestione, mangiavo poco e male.»
A trent’anni Loredana continua a fare visite specialistiche alla ricerca di qualcuno che dia delle risposte, ma trova una soluzione solo quando di anni ne ha 36, dopo 24 di ricerca affannosa della causa del problema.
«Scoprirono che poteva trattarsi di endometriosi, perciò venni sottoposta subito ad intervento laparoscopico diagnostico che confermò la diagnosi. Il giorno del mio primo intervento di endometriosi ho fatto una scoperta sensazionale: si poteva avere una vita senza dolori! Era una scoperta magnifica e mi sembrava di vivere un momento irreale. Era mai possibile che la gente vivesse così bene e non ne capisse davvero il significato? Tutto era così fantastico in quell’attimo. Continuavo a pensare “Ma allora la vita è davvero meravigliosa”. Nello stesso momento però avevo anche realizzato il grado di dolore che io fino a quel momento avevo dovuto vivere e subire a causa di questo mostro che mi mordeva costantemente dentro e dovunque. Lì avevo preso coscienza di quanto io non avessi mai vissuto veramente appieno la vita con gusto, di quante emozioni contorte, di quante rinunce, di quanti giorni persi sdraiata sul letto a contorcermi e a desiderare di non essere mai nata.»
Ma purtroppo la magia si spezza presto, la sensazione di benessere non dura molto: «Quella stessa notte erano tornati lentamente i dolori. Ho dovuto effettuare un nuovo intervento dopo un anno e mezzo perché i dolori si erano riacutizzati: nel primo intervento non era stata eseguita una corretta pulizia delle cellule endometriali. Avevo però, dopo il mio primo intervento, guadagnato 3 giorni al mese. Stare meglio anche solo 3 giorni in un mese, per me, era stata una grande conquista. Con il secondo intervento ne guadagnai altri 3. Oggi in quei giorni “mediamente buoni” riverso e cerco di svolgere tutte le cose importanti che negli altri giorni non mi è, purtroppo, possibile fare.»
Negli anni nella vita di Loredana sbucano anche altre diagnosi di patologie importanti e questo non le permette di seguire terapie apposite: le varie malattie sono incompatibili l’una con l’altra. «Cerco di contrastare le infiammazioni con degli integratori che agiscono sull’infiammazione ma che, ovviamente, non permettono di ottenere un risultato ottimale. Quando l’infiammazione è nella sua fase acuta arrivo ad avere quella che si chiama “fibro-fog” ed allora è opportuno stare in casa.»
Insomma, nella vita di Loredana il dolore è un nemico che ti morde, ti sbrana, ti ferisce e che non puoi spodestare, anche perché – ricordiamo – all’endometriosi non c’è cura.
«È fondamentale conoscere il proprio corpo per conoscerne i suoi limiti, e soprattutto non oltrepassarli perché potremo arrivare ad uno stadio peggiore di quello in cui siamo attualmente. Ognuna di noi ha dei limiti differenti perché diversa è la condizione in cui si trova. Un comportamento che per una di noi può essere positivo, non è scontato che lo sia per un’altra, ogni fisico reagisce e agisce in maniera diversa dagli altri, per questo suggerisco di ascoltarlo. È importante non sottovalutare questo aspetto perché siamo noi, poi, ad essere portavoce del nostro corpo con il nostro medico ed è a lui/lei che dobbiamo raccontare quello che siamo state capace di sentire. Il dolore è un segnale d’allarme e noi non dobbiamo sottovalutarlo. Certo, poi, è importante trovare lo specialista che ti ascolta e che ti propone la soluzione migliore per te. In Italia, in questi anni, un centro di eccellenza lo abbiamo all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria a Negrar di Valpolicella in provincia di Verona. Da diversi anni cerco di ascoltare il mio corpo, quello che suggerisce sia meglio per me, dal cibo al ritmo di vita: se lo conosciamo e lo facciamo stare meglio, lui contraccambia la cortesia.»
Purtroppo non si può mangiare quel che si vuole, dice Loredana: gli alimenti devono essere quelli che non infiammano il corpo.
E non solo: bisogna persino convivere con chi non capisce la gravità del soffrire di una patologia così grave.
«Nell’ambiente di lavoro ho incontrato diverse persone che non hanno creduto fosse così dolorosa la mia condizione, forse a causa del mio carattere. Ho cercato di non far pesare sugli altri il mio dolore e ho sempre tenuto il sorriso anche quando dentro di me era in corso una lotta tra cellule impazzite che attaccavano i tessuti del mio corpo. Si tratta, penso, di semplice e pura ignoranza. Le persone che sminuiscono il problema sono persone che non lo conoscono la patologia e che prima di commentare non hanno avuto l’accortezza di documentarsi a dovere. Sono solo persone povere di conoscenza. Per questo non mi soffermo più con le persone che si rifiutano, volutamente, di comprendere. Non perdo più il mio tempo a cercare di spiegare loro il significato di sofferenza perché non ti ascoltano e non vogliono capire. Utilizzo, invece, il mio tempo per spiegare a quelli che son disposti ad acquisire quanto ho loro da dare e, a volte anche con difficoltà, a condividere le mie esperienze più personali, in modo che di riflesso si abbia una divulgazione della conoscenza della malattia.»
Diffondere la conoscenza su questa patologia: ecco l’obiettivo di Loredana e delle donne che hanno, nella loro vita, questa piaga.
«Il nostro compito è sensibilizzare il più possibile, perché una diagnosi precoce vuol dire avere una vita più normale. Vuol dire evitare complicazioni davvero importanti ed irreversibili alle quali tante di noi purtroppo sono andate incontro. In più, spesso bisogna andare, a proprie spese, fuori dall’Isola. Non dimentichiamo il problema della crescita demografica in costante calo in Italia: una diagnosi precoce significa avere la possibilità di poter avere dei figli e per una famiglia sappiamo quanto questo sia importante. Diagnosi precoce significa dare la possibilità a giovani donne di proseguire un proprio percorso professionale senza dover rinunciare a frequentare scuola, università o master e poi lavoro. Diagnosi precoce significa ridurre la spesa sociale annuale che in Italia è arrivata ad essere circa 6 miliardi di euro tra giornate lavorative perse, cure mediche, trattamenti chirurgici.»
Loredana, negli ultimi anni, ha dovuto rinunciare al lavoro: «Il mio corpo non regge più la routine normale di una giornata lavorativa, soprattutto perché cerco sempre di dare il massimo anche a spese della mia salute. Considerate le diverse patologie importanti da cui sono affetta, non posso permettermi di trattare male il mio corpo ed imbottirlo di farmaci tutti i giorni per potermi recare al lavoro.»
Una scelta necessaria, dettata dal desiderio di non farsi più male del dovuto, considerate le mille sofferenze subite.
«Le lesioni endometriosiche sono delle micro ferite aperte che sanguinano e s’infiammano senza risolversi,» spiega infatti «ma anzi a ogni mestruazione vanno incontro a un picco d’infiammazione, a un approfondimento e a un allargamento, sono tante ferite aperte che a ogni ciclo peggiorano. Soffrire di dolori invalidanti per una media di 7 giorni a ciclo, per 13 cicli in un anno significa avere 91 giorni all’anno in meno di vita normale. Se ipotizziamo che una donna lungo il suo percorso di vita, dal menarca alla menopausa, ha una media di 40 anni di fase follicolare, significa che i giorni interessati arrivano ad essere 3.640. Sono quasi 10 anni. Riflettiamo su questi dati, non restiamo indifferenti.»
Ma cosa vuol dire? Be’, come spiega la tortoliese, che 1/5 della vita, a 52 anni, sarà stata trascorsa a lottare contro dolori lancinanti ed invalidanti.
«È tutt’altro che semplice vivere, o meglio convivere, con una malattia così devastante anche perché la tua vita influenza inevitabilmente quella della tua famiglia e del tuo compagno, ma se accanto hai persone speciali come ho avuto la fortuna di avere io, allora ciò ti rende più forte e guadagni quell’energia necessaria per andare avanti, per loro e grazie a loro. Non dobbiamo permettere che una malattia ci rovini la vita ma dobbiamo adeguare la nostra vita in base ad essa e cercare di renderla migliore senza arrenderci mai perché in tante giornate “no” ci capitano, ogni tanto, anche quelle “sì” e sono quelle che ci meritiamo ed è per quelle che noi lottiamo.»
E speriamo che una cura si trovi, e presto anche, in modo che nessuna donna debba soffrire così tanto, in maniera così debilitante, e possa essere chi vuole, andare dove vuole e trarre il meglio dalle proprie giornate… come è giusto che sia.
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