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Lo sapevate? Le tre cose che non conoscevi sul quartiere di Villanova

Lo sapevate? Le tre cose che non conoscevi sul quartiere di Villanova.

 

Concludiamo la nostra rassegna sulle curiosità legate ai quartieri storici cagliaritani con Villanova, il più recente dei quattro, luogo di religiosi, confraternite, chiese, e panifici. Oggi è il quartiere della movida e con le sue casette a due piani, tetto a doppio spiovente e le piante e i fiori sistemati ad abbellire le vie, ha conservato un’anima genuina, molto apprezzata dai turisti e dagli stessi cagliaritani.

Panetteris Inforra Christus

I Cagliaritani amano da sempre i soprannomi (is allumingius), si sa. Sono persone simpatiche, veraci, goderecce, sono i Romani della Sardegna. E amano prendere e prendersi in giro, anche tra loro, naturalmente. Succede ora, succedeva anche prima, quando Cagliari era formata da pochi quartieri storici e la vita, almeno per i ceti più umili, era molto più difficile. Ma il lazzo, la presa in giro, lo scherzo non mancavano mai. Ecco perché legata alla Cagliari storica c’è anche una storia vera e propria, legata direttamente ai quattro quartieri storici. Una storia, questa, che piace tanto ai turisti e che ogni buona guida cagliaritana dovrebbe conoscere. I fatti risalgono al Medioevo, quando Cagliari era divisa in quattro quartieri storici dopo la distruzione di Santa Igia.

I quartieri erano Castello (Castrum Karalis o Castel de Castro, dopo Castedd’e Susu), Marina (anticamente Lapola), Stampace e Villanova. Gli abitanti di queste quattro zone erano soliti prendersi in giro, per divisione di casta, per campanilismo e per orgoglio, un po’ come accadeva in tutte le città medievali italiane (si pensi a Siena e alle varie contrade in occasione del Palio). Gli abitanti dei quattro quartieri avevano ognuno i propri soprannomi e poi ogni abitante era etichettato in un certo modo.
Nel quartiere di Villanova (per antonomasia uno dei più religiosi della città) ultimo nato tra gli storici, risiedevano molti panettieri. Da lì il soprannome di Panetteris Inforra Christus, letteralmente panettieri infornatori di Cristo. Una sorta di contrappasso nella vita per quelle persone che, pur essendo molto religiose, si videro costrette a bruciare dei crocifissi di legno, in mancanza di legname, per poter panificare.

Le mura di Villanova

Anche il quartiere di Villanova come Castello, Stampace e Marina aveva le sue mura e le sue porte medievali. La Porta dei Calderai, Porta Cavagna e il Portico Romero, strutture che adesso non esistono più. L’ultimo a essere demolito, in quanto fatiscente e mal salvaguardato, fu il Portico Romero, abbattuto nel 1963. Adesso in via Garibaldi la strada dove si trovava la porta si chiama proprio via Portico Romero.

Costruito dai Pisani (con il nome di portico di Nostra Signora del Rimedio)  nella seconda metà del 1200, era uno dei tre ingressi che immettevano nel quartiere storico di Villanova.

Le altre due porte, ora scomparse, si trovavano in via Sulis (porta Villanova o dei Calderai) e davanti alla chiesa di San Cesello (porta Cavagna, Cabanyas o Cavagnas) nell’odierna via San Giovanni. La cinta muraria merlata aveva un lunghezza di circa 940 metri, il percorso cominciava all’altezza dell’attuale scuola di Santa Caterina, seguiva tutta l’attuale via Garibaldi, aggirava il convento di San Domenico e si riuniva al costone del colle di Castello, sotto la Porta di San Pancrazio. Nel 1849 parte delle mura medievali che dividevano l’odierna via Garibaldi da via San Domenico furono demolite per far posto a un palazzo più moderno.

 

Il tribunale spagnolo della Santa Inquisizione

Il tribunale spagnolo della Santa Inquisizione a Cagliari si trovava nella chiesa di San Domenico. L’inquisizione spagnola operò a Cagliari a partire dal 1492 con Sancho Marin. Fu l’inizio di un periodo terribile che fece precipitare Cagliari nel terrore. Il tribunale spagnolo, autorizzato dal papa Sisto IV, aveva il compito di giudicare i reati di fede. Gli uffici del tribunale locale, sede periferica della Spagna, si trovavano in città nell’antica chiesa di San Domenico per essere poi trasferiti in un luogo detto “Sa Stellada”, nell’attuale via dei Giudicati. I reati più comuni in questo settore erano le cosiddette “deviazioni di fede”, di bigamia e stregoneria.

Fondato nella seconda metà del XIII secolo ai margini del borgo di Villanova, il convento di San Domenico raggiunse la sua massima espansione nel corso della seconda metà del Cinquecento, in seguito all’attuazione di un lungo processo di ammodernamento e di ampliamento della fabbrica conventuale, innescato dall’introduzione nel cenobio della Riforma domenicana (1566). In questo contesto dovette probabilmente inserirsi anche la realizzazione delle due grandi crociere a diciassette e cinque chiavi che coprivano l’aula della chiesa.

Nel 1943 il convento venne raggiunto da due gruppi di bombe che, esplodendo all’interno della chiesa, provocarono la caduta della copertura e della maggior parte delle pareti verticali dell’aula, causando ingenti danni anche al chiostro. La chiesa fu ricostruita leggermente sopraelevata con altre forme ma le sue splendide volte andarono perdute. Sotto la nuova chiesa si conservano solo alcuni ambienti della vecchia struttura e una parte del chiostro.

I sospettati, dopo l’arresto, venivano sottoposti a un interrogatorio da parte dell’inquisitore per un’ammissione delle colpe. Coloro i quali non riconoscevano i propri reati venivano sottoposti a tortura, che era una prassi consueta, anche per altri reati. I metodi di tortura più usati a Cagliari dall’Inquisizione erano: la garrucha (carrucola) che consisteva nel legare dietro le spalle i polsi della vittima e sospenderla a una puleggia fissata al soffitto. Spesso ai piedi veniva legata una zavorra e venivano dati colpi di bastone alla fune per aumentare le sofferenze. Il corpo veniva issato lentamente e poi lasciato di colpo ricadere senza fargli toccare il suolo. Era quella più comunemente usata in Sardegna.

Il potro (cavalletto) consisteva nel collocare su una tavola sostenuta da quattro piedi il suppliziato legato alle estremità con delle funi che venivano tese, stirando sempre più il corpo. A questa tortura si sostituiva o aggiungeva spesso quella del cordel con la quale si avvolgevano attorno al corpo e alle gambe corde sottili. Dando di volta in volta ai capi delle cordicelle strette attorno ad un tortore, il carnefice le faceva penetrare nelle carni della vittima.

La tortura dell’acqua (la tuca): si trattava di far ingurgitare per la bocca o per le narici un imbuto di acqua pura, o mista ad aceto, calce e sale. Veniva forzato l’inghiottimento dell’intero contenuto dell’imbuto prima di potere respirare. Questa tortura era spesso usata su imputati compromettenti perché aveva il vantaggio di non lasciare segni esterni. L’accusato veniva disteso supino su un’asse orizzontale e gli si versava sullo stomaco, per mezzo di un imbuto il cui becco era cacciato fino in gola, da 5 a 15 litri d’acqua. Già questo era un tormento sufficiente a generare il panico nell’accusato, perché il terrore di soffocare, causato dall’imbuto e dall’impossibilità di respirare mente l’acqua gli veniva versata in gola, era terribile.

Quando lo stomaco era teso come un otre si inclinava l’asse in modo che l’interrogato venisse a trovarsi con la testa in basso: la pressione dell’acqua contro il diaframma e il cuore provocava dolori lancinanti che, se non erano sufficienti a farlo confessare, venivano aggravati da brutali percosse sul ventre. Oltre a queste pratiche, erano comuni anche l’utilizzo di ferri roventi o lo strappo delle unghie.
L’accusato quasi sempre confessava, visti i tormenti, e veniva condannato. Prima dell’esecuzione veniva sottoposto a una cerimonia, chiamata Autodafé, nella quale dopo una messa il condannato passava tra la folla, scalzo e con un saio. Le condanne più miti erano il remo forzato nelle navi galera o il lavoro nel lazzaretto per l’assistenza dei malati. La denuncia anonima divenne un metodo usatissimo per eliminare nemici. In tutta la Sardegna furono mandate a morte un centinaio di persone.
Non furono pochi, quindi, i sardi condannati dal tribunale dell’inquisizione: a Cagliari, Donna Catalina Vacca accusata dal Vicerè Duca di San Germano, successore di Camarassa, di aver commissionato ad una fattucchiera la preparazione di una polvere per ucciderlo.

La fattucchiera rea confessa fu impiccata mentre Donna Catalina e la figlia sua complice esiliate. Grazia Pola e la figlia Elena Terres, sottoposte a penitenza per superstizione. Mattia Malla, abitante nel quartiere di La Pola, processato nel 1540, confessò di aver tenuto un diavolo in un’ampolla. Isabella Contene: Cagliaritana condannata all’autodafè del 30 novembre 1593, disse di adorare il diavolo Maggiore.
Michele Orrù, condannato all’abiura de Levi nel 1618 per aver contratto un patto demoniaco. Francesca Chigitortu, prigioniera nel carcere del Santo Ufficio insieme alle due figlie nel 1650. Furono accusate di essere andate a cercare un tesoro su indicazione di un demonio o di una fata che appariva in forme diverse, ora come uomo, ora come donna. Si chiamavano Violante Ana e Giovannangela Mura.
Nei dintorni di Cagliari, a Maracalagonis furono condannate a morte entrambe nell’autodafé del 1526 Anna De Sesto e Giovanna Sesto. A Monserrato venne condannata a morte nell’autodafé del 1527 Elena Madello. A San Sperate: Annetta Esquirru, denunciata 32 volte nel 1725, Antonia Melis, vedova di 44 anni, denunciata 17 volte nel 1725, Caterina Casti: 60 anni, denunciata 40 volte nel 1725: arrivò persino ad autodenunciarsi. Dichiarò di sapere tre tipi di Brebus: contro s’ogu pigau, dolori generici e dolori delle ossa. Caterina Anna Manca: 38 anni, denunciata 6 volte nel 1725. Francesco Esquirru: 65 anni, sposato, era conosciuto come fattucchiere in grado di fare “is Nuus”, pratiche malefiche che impedivano a uomini e donne di avere rapporti carnali. Venne accusato da una certa Lucia Contini. Venne accusato anche di aver fatto morire un certo Francesco Diego Cocody grazie all’intervento del diavolo.

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