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Accadde oggi: 2 luglio 1855, entra in funzione il carcere di Buoncammino

Durante la metà dell’800, a Cagliari divenne sempre più pressante l’esigenza di un nuovo carcere, che sostenesse il peso dei detenuti fino ad allora dislocati fra le altre strutture detentive della città. Era necessaria una succursale, che si decise di costruire nella periferia del quartiere Castello, la quale assunse il nome poi tristemente noto di Buoncammino, ispirato alla vicina chiesa allora dedicata alla Nostra Signora di Buoncammino e oggi intitolata a San Lorenzo.

Il 2 luglio 1855 la struttura entrò in funzione, e immediatamente vi affluirono circa 600 detenuti, uomini e donne, provenienti in massima parte da complesso di san Pancrazio. Il primo direttore fu Domenico De Sica, nonno del famoso attore Vittorio, e già pochi anni dopo il carcere dovette essere ampliato, secondo una serie di accorgimenti che resero la struttura simile a quella che giunse fino alla chiusura. Nel tempo, il nuovo carcere divenne sinonimo di sicurezza. Una sicurezza quasi inquietante, ben espressa da una vecchia leggenda nota ai cagliaritani e soprattutto ai detenuti. Si raccontava infatti che un progettista fosse addirittura giunto al suicidio, quando un suo congiunto – condannato a trascorrere un periodo di detenzione proprio nella struttura del capoluogo – lo accusò di essere il costruttore di un mostro e quindi tale egli stesso.

In breve, Buoncammino non significò più solo sicurezza, ma anche sovraffollamento. Detenuti stipati in celle troppo piccole, prive delle più basilari condizioni igienico-sanitarie, affetti da malattie psichiche, epatiti e patologie causate da una diffusa tossicodipendenza. Buoncammino fu anche il carcere delle strazianti feritoie “a bocca di lupo”, dalle quali si levavano grida animalesche che riecheggiavano nell’antistante viale Buoncammino, le quali condannavano i carcerati a un’immutabile e alienante porzione di cielo. Ma ciò che caratterizzò più di tutto il mostro di Cagliari furono i tanti, tantissimi suicidi, che raggiunsero secondo alcuni lo sconvolgente ritmo di uno ogni quindici giorni. Fu necessario attendere un secolo, per far sì che il complesso assumesse una forma meno disumana, e la rottura giunse nel 1950, quando l’allora direttore Dante Melis organizzò una proiezione cinematografica per la popolazione detenuta. Qualcosa andava cambiando – e lo testimoniò l’enorme risonanza mediatica assunta dall’episodio -, e anche i successivi dirigenti proseguirono sulla strada aperta da Melis: ai carcerati minorenni fu concessa la possibilità di proseguire gli studi, e la struttura fu – a fatica – adattata ai nuovi provvedimenti legislativi, che prevedevano la presenza di spazi sportivi.

 

Più di 160 anni dopo la sua apertura – nel 2014 – il mostro è stato chiuso, e detenuti trasferiti nel nuovo carcere di Uta. Anni, gli ultimi, emblematici di un grave malessere, frutto dell’oramai patologica emergenza del sovraffollamento.

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