Site icon cagliari.vistanet.it

Sardegna isola di gusto e sapore: tutto il meglio della cucina dell’entroterra

articolo-ras-collage

La Sardegna è divisa in diverse zone, molto differenti tra loro sia per quanto riguarda il dialetto, sia per la gastronomia. I piatti tipici del cagliaritano non sono certamente simili ad esempio a quelli del nuorese, a causa delle differenze geografiche e alla diversa reperibilità dei cibi. Nonostante si tratti di un’isola in mezzo al mare, tradizionalmente la vita si svolgeva lontana dalle coste che rappresentavano la porta di ingresso dei pericoli e dei nemici: per questo le tradizioni, la cultura e la gastronomia sono molto più rurali-montani che marittimi.

Terra di mare e di monti, la Sardegna ha quindi tantissimo da offrire in fatto di gusto e sapori: forti, delicati, caserecci o più raffinati, ecco alcune delle pietanze dell’entroterra, dal Nord al Sud dell’Isola, più conosciute e apprezzate.

Malloreddus: da sempre sono i protagonisti della cucina sarda (tipici del Campidano, Sud Sardegna), dal pranzo della domenica nelle tavole delle nonne, ai matrimoni o alle sagre di paese. I malloreddus sono il primo piatto sardo per eccellenza, da secoli. Gli “gnocchetti sardi”, così come sono conosciuti nel resto della penisola, affondano le loro radici nello schema millenario fra coltivazione e alimentazione, tipico della cultura contadina, una cucina basata prevalentemente sulla coltura del grano tipica del mediterraneo e della coltivazione del grano. Il nome “malloreddus” deriva dal termine campidanese “malloru” (toro), di cui è il diminutivo. Malloreddus richiama quindi ai vitellini, visto che la loro forma panciuta riportava, nell’immaginario collettivo del mondo pastorale dell’entroterra, quella appunto di un vitello appena nato.

Foto Annalisa Atzeni

Da centinaia di anni, le massaie sarde preparavano questa prelibatezza utilizzando “su ciuliri” (il setaccio), una cesta in paglia contro la quale venivano schiacciati dei piccoli cubetti di pasta, ricavati da un impasto fatto di grano duro, acqua e, nella ricetta tradizionale, qualche filo di zafferano. Questa operazione permette alla pasta di assumere quella tipica forma arrotolata e rigata, tanto conosciuta e familiare. Di solito vengono preparati con il sugo di salsiccia, sbriciolata e fatta rosolare in un soffritto di cipolla, per poi essere aggiunta al sugo, dove viene terminata la cottura. Una spruzzata di buon pecorino alla fine e i malloreddus sono pronti.

Foto Annalisa Atzeni

Oltre alla classica ricetta campidanese, andando in giro per la Sardegna è facile trovare altre idee per condirli: a Carloforte, ad esempio, vengono abbinati al tonno rosso e al pesto, con qualche pomodorino per dargli un tocco di colore in più, mentre la versione sassarese prevede un’amalgama di panna e semola. C’è poi chi ci aggiunge delle scaglie di ricotta di pecora, o qualche mazzetto di finocchietto. In qualunque modo li si preferiscano, i malloreddus in tavola sono e saranno sempre sinonimo di festa.

Foto Annalisa Atzeni

Filindeu: la Sardegna custodisce il segreto della pasta più rara del mondo. Si chiama Filindeu, i fili di dio. Solo poche mani esperte ancora riescono a produrre questi delicati e sottili fili intrecciati di semola di grano duro. Questa antica tecnica di pastificazione risale ad oltre 300 anni fa. Una tradizione culinaria tipica del nuorese che al giorno d’oggi solo pochissime persone, tutte donne, custodiscono grazie ad una ricetta che si tramanda di generazione in generazione sempre all’interno delle stesse famiglie. La tecnica di preparazione è particolarmente difficile e laboriosa. La base dei Filindeu è un impasto a base di farina di semola di grano duro, acqua e sale, lavorato con attenzione e calma finché l’esperienza del tatto con le mani non avverte il momento esatto in cui l’impasto è pronto.

Foto Maristella Atzeni

All’impasto viene data la forma di un cilindro tirato tra le dita delle mani. Dopo essere stato ripiegato su se stesso, si frazionerà  in tanti finissimi filamenti. Da un pezzo di impasto di un etto si otterranno circa 250 sottilissimi fili. I fili vengono stesi in tre strati su un canestro circolare di foglie di asfodelo essiccate,  creando una trama a intreccio, dopo di che avviene la fase di essiccazione che rinsalderà tutto creando un vero e proprio reticolato di pasta finissima. Una volta pronta, la pasta verrà spezzettata in pezzi più piccoli e immersa nel brodo di pecora insaporito con scaglie di formaggio pecorino fresco.

La pietanza viene preparata ritualmente in ottobre, in occasione del pellegrinaggio al santuario di San Francesco di Lula, da offrire ai pellegrini che vi si recano.

Porchetto arrosto: il maialino sardo è una prelibatezza tipica della nostra Isola, conosciuta praticamente in tutta Italia, una colonna portante della nostra tradizione culinaria. Quello che serve per prepararlo può sembrare semplice da reperire (maialetto, sale, mirto) ma non è così: è infatti essenziale che l’animale sia da latte, rigorosamente nostrano e che pesi circa 4 chili. Impossibile quindi non cercarlo da un macellaio o allevatore di fiducia.

Foto Annalisa Atzeni

La preparazione è uguale in tutta la Sardegna. La cottura alla brace, con fuoco lento, è di circa 2 ore e mezzo (al forno poco meno di due ore, dopo averlo girato, salato, e rigirato, a 180/200 gradi), la cotenna deve avere un colore bruno-dorato (per capire se è cotto si può fare la prova dell’orecchio: se tirato si stacca facilmente, il maialetto è pronto). La cotenna deve essere croccante, la carne morbida. A cottura ultimata, va sfilato dallo spiedo e lasciato riposare sul mirto, affinché si insaporisca prima di servirlo. Il bello del porchetto sardo è che non ha bisogno di aggiunte o di marinate. Non vengono usate spezie, di nessun genere, si aggiunge solo sale a cottura ultimata, altrimenti la carne si disidrata asciugandosi.

La sua diffusione come piatto tipico dei menù tradizionali e turistici è piuttosto recente. Prima degli ultimi 40-50 anni il porchetto sardo allo spiedo era il piatto delle grandi occasioni, perfetto da portare in tavola per la Pasqua o per qualche ricorrenza familiare. Non tutti infatti potevano permettersi il “lusso” di mangiare i maialini da piccoli, dal momento che – da adulto – il maiale diventava una straordinaria risorsa per la famiglia, regalando carne, insaccati e altri prodotti, perfetti per riempire la dispensa di casa o, eventualmente, per essere venduti o scambiati.

Pane carasau: «Prima che esistessero l’Italia, i romani, il Cristianesimo e gli stessi Etruschi, in Sardegna c’era il Pane carasau. Una costante in tutte le famiglie sarde e un oggetto di grande fascino per me», diceva il popolarissimo chef americano Anthony Bourdain. «Questo pane piatto e croccante descrive meglio di ogni altro piatto l’essenza della storia della Sardegna nei secoli – prosegue la descrizione – perfetto per essere consumato durante gli attacchi dal mare dei nemici e dai pastori durante le lunghe giornate di pascolo. Sembra facile, ma non lo è. È un insieme di operazioni delicate e che si seguono l’un l’altra. Ci vuole tempo e dedizione».

Foto Annalisa Atzeni

Il pane carasau non manca mai in ogni casa sarda che si rispetti: originario della Barbagia, viene consumato in ogni parte dell’Isola. Si tratta di una preparazione legata alla tradizione contadina che nasce per accompagnare piatti poveri a base di verdure o di cereali. Nel resto d’Italia è conosciuto col nome di “carta musica” (nome dovuto al rumore che si ottiene mentre si mangia, data la sua croccantezza). Il nome ”carasau” deriva dal verbo ‘‘carasare’‘ che significa ”tostare”.

Per preparalo servono pochi ingredienti: farina di grano duro, lievito di birra, acqua e sale, ma quello che occorre di base è un’abilità di certo non da tutti. La doppia cottura in forno è quella che permette di ottenere quella croccantezza e friabilità che sono le caratteristiche di questo pane. Un’ottima variante del semplice pane carasau è il “guttiau”, in cui la sfoglia di carasau viene condita con olio e sale e fatta leggermente riscaldare in forno.

Sebadas: sono state per tanto tempo il pasto con cui le donne dei pastori accoglievano i loro mariti al rientro dalle montagne. Seadas, sebadas, o sabadas sono solo alcuni fra i vari nomi con cui è conosciuto il dolce che chiude il tipico pasto sardo. Il segreto è un formaggio leggermente inacidito. Due sfoglie di semola impastata con lo strutto, formaggio pecorino e miele: una ricetta che affonda le sue radici nella notte dei tempi. A prescindere da quanto abbiate mangiato a pranzo o a cena, lo spazio per una “sebada” si trova sempre. È lei la regina incontrastata di ogni fine pasto. Un dolce che affonda le sue radici nella notte dei tempi.

Foto Annalisa Atzeni

Le varianti del nome sono tante quanto i dialetti dell’Isola: fra le più conosciute la sua versione barbaricina sebada, e quella logudorese seada, ma non mancano le varianti come seatta, sevada o sabada. Quello che è certo è che il nome deriva dalla parola latina “sebum”, per il suo aspetto untuoso e per l’assonanza con il termine sardo “seu”, con il quale è indicato il grasso animale utilizzato per fabbricare le candele, la cui lucentezza ricorda appunto il dolce-non dolce. La sebada nasce infatti come piatto salato, servito “mannu cantu su prattu” (grande come il piatto), dalle donne nel mondo della cultura agropastorale ai loro uomini, pastori, che rientravano a casa dall’esilio invernale fra le montagne della Barbagia.

Foto Annalisa Atzeni

Oggi la regina di fine pasto è ormai diffusa in tutta l’Isola, e viene servita tutto l’anno, anche se per tanto tempo ha rappresentato il dolce tipico delle festività pasquali in Sardegna. Nei menu di oggi la trovate spesso indicata al plurale (seadas o sebadas) anche se il riferimento è chiaramente ad una porzione individuale. Gli ingredienti principali sono: semola impastata con lo strutto (in sardo pasta violada perché violare sa pasta significa proprio preparare la pasta con lo strutto) che avvolge una fetta di  formaggio pecorino fresco, scorza di limone grattugiata e miele.

 

Ripartiamo dalla Sardegna
Sardegna, capace di abbracciare il mondo

 

Exit mobile version