Maturità e Covid-19, lo scrittore Matteo Porru scrive una lettera al suo liceo: “Mi manchi”

«A scuola, non si impara e basta. Perché la scuola ha la tendenza, ormai un’assuefazione, al far capire il mondo. E l’abilità, umana e straordinaria, nello stesso tempo, di far conoscere se stessi».
Come migliaia di studenti in tutta italia il giovanissimo e talentuoso scrittore cagliaritano Matteo Porru, 19 anni, una volta superato l’esame di maturità, saluterà per sempre la sua scuola.
Ma è un ultimo anno più unico che raro quello che Matteo e i suoi coetanei stanno concludendo nel loro percorso scolastico durato 5 o più anni.
Così, Matteo, vincitore nel 2019 del Premio Campiello Giovani, ha deciso di dedicare alla sua scuola superiore, il Liceo Classico Dettori di Cagliari, una lunga e sentita lettera aperta.
La riportiamo integralmente:
«Amico mio,
Quando, quasi cinque anni fa, mi hai lasciato entrare, non avrei mai immaginato che gli ultimi giorni da liceale li avrei passati lontano da te. Con la paura, sempre più concreta, che non ti rivedrò più da studente e con quel ricordo, quasi fastidioso, che l’ultima ora di scuola è stata una sesta, stanca, quando non vedi l’ora che la campanella suoni le due meno cinque.
Non mi manca, quella campanella. Mi manca cosa accadeva, dopo la campanella. Mi mancano i corridoi pieni, le macchinette con una fila che neanche alle poste per ritirare la pensione; mi manca lo spauracchio della versione e la classe, piena, che ripassa il piuccheperfetto. Mi mancano gli insegnanti in sala professori, i cestini della differenziata pieni, le pacche sulle spalle dei collaboratori, le circolari lette nel bel mezzo della spiegazione, l’annuncio dalla presidenza con una musichetta eterna. Mi mancano le interrogazioni, il registro che si blocca, le gambe tremolanti, il leggere in faccia agli amici che domani c’è filosofia e Hegel no, non entra in testa. Mi manca il baccano della ricreazione, i venditori di panini, le formazioni di amiche che camminano insieme per gli anditi.
A te forse cambia poco, che quelle strade sono andirivieni, ma si prova una sensazione orrenda nell’esserti accanto ma non dentro. Non alzare le tapparelle per far entrare più luce, non calarle per la L.I.M.
Che, poi, alla fine, neanche ci pensi. È un automatismo che ti programmano fin da bambino. La sveglia alle sette, il caffellatte, il muffin che si inzuppa e il cucchiaio che lo solleva. L’andata, con tutti i pensieri futili e meravigliosi di cosa accadrà in quelle cinque ore, sperando che una, almeno una, sia buca. E il ritorno, sfinito e con una fame che divoreresti anche le bic. E poi lo studio, la parafrasi del Paradiso (ma perché non siamo ancora al Conte Ugolino o a Paolo e Francesca e sto leggendo i canti gemelli che, in confronto, dammi una lametta che mi taglio le vene?), il panino con la mortazza a merenda, qualche pagina di storia.
Eppure, dietro quei banchi, ti emozioni. Perché ridere del Satyricon, riflettere sul male radicale, seguire la N.E.P di Lenin o Doctor Jekyll e Mr. Hyde, studiare l’elettromagnetismo e Ie biomolecole, vedere Ila trascinato giù dalle ninfe o l’avarizia di Smicrine, tutto mescolato insieme, è l’unica vera vita che muove la scuola.
A scuola, non si impara e basta. Perché la scuola ha la tendenza, ormai un’assuefazione, al far capire il mondo. E l’abilità, umana e straordinaria, nello stesso tempo, di far conoscere se stessi.
Non so se ci rivedremo, ma se non dovessimo farlo, voglio che tu sappia quanto mi sei stato amico. E quanto mi mancherai, quando tutto questo, chissà come, sarà finito, fra un paio di mesi. Mi ricordo il caso umano che hai conosciuto e sono fiero del caso umano che ti saluta adesso, da lontano, ma accanto a te, sempre.
Non credo, anzi sono certo, che nessuno potrà mai dirti quanto sono fiero di averti e quanto lo sarò di averti avuto con me.
Fai il bravo. Ti voglio bene. Matte».

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