In Sardegna l’argia – nota anche come “arza” – è stata per lungo tempo portatrice di significati e sentimenti diversi e addirittura contrastanti. Anzitutto d’odio, perché causa di malattie, ma ancor più di divertimento, perché pretesto per l’inizio di canti e sfrenati balli di gruppo.
Secondo la credenza, il fine della danza era purificatore. Non soltanto contro gli effetti fisici del veleno – aumento della sudorazione, febbre, vomito -, quanto in opposizione alla possessione quasi demoniaca di cui si riteneva fosse oggetto la vittima. I rituali danzanti potevano quindi durare fino a tre giorni, e in aggiunta al valore religioso – l’argia veniva associata a una presenza maligna priva del battesimo – la celebrazione diveniva per la comunità un prezioso momento di svago e divertimento, contrapposto alla faticosa e monotona vita dei campi. In tanti si sono interrogati sulla natura femminile delle tre figure protagoniste della danza, condivisa anche dallo stesso animale. Fra le conclusioni più accreditate, si ritiene che la danza sfrenata rappresenti la temporanea liberazione dalla repressione sociale e sessuale che tanto a lungo costrinse le donne, sarde e non solo.