Articolo di Sara Sirigu
Se oggi il Capodanno segue usanze pressoché simili in tutte le regioni italiane, di certo non si può dire lo stesso del passato: in Sardegna infatti si salutava l’anno appena concluso, per fare spazio al nuovo, attraverso una serie di usanze e tradizioni, molte delle quali andate perdute.
“Cabudanni”: questo è il nome in lingua sarda che traduce “Capodanno” e che letteralmente, nella sua derivazione latina da “caput anni”, significa inizio dell’anno. Ma in sardo la parola è sempre stata utilizzata anche per riferirsi a settembre: fino al Medioevo era proprio questo il mese in cui veniva festeggiato il Capodanno in Sardegna, a causa del calendario bizantino che – a differenza di quello gregoriano, adottato a partire dal 1582 – faceva iniziare il nuovo anno il primo di settembre e non il primo gennaio. Grazie ai racconti di Grazia Deledda sappiamo che in questo mese prendevano vita diverse tradizioni e usanze, legate al concludersi del ciclo delle attività agropastorali e il cui obiettivo era quello di invocare il buon auspicio per l’anno a venire.
Ma quali sono le altre usanze e caratteristiche del capodanno sardo di tanti anni fa? Una di queste è legata alla prima persona che si incontra al mattino del primo dell’anno: in molti paesini della Sardegna questo incontro era ritenuto molto importante, in quanto quella stessa persona avrebbe potuto rivelare il futuro dell’altra. Inoltre, se si incontrava un uomo o una donna con una gobba, significava che si sarebbe stati molto fortunati durante l’anno, fortuna che si poteva addirittura accrescere riuscendo a toccare la gobba. Generalmente, incontrare un uomo come prima persona era segno positivo rispetto all’incontro con una donna.
Un’altra tradizione, particolarmente diffusa nella zona di Nuoro e non solo, era quella de “su Candelarju” o “su Candelarzu”: i bambini si recavano infatti nelle strade del paese facendo il giro di tutte le case, chiedendo dei doni per i poveri e per i bisognosi. Riuscivano a raccogliere soprattutto pane e piccoli dolci, ma anche della frutta secca. “Pedire sa Candelaria” si usa tutt’oggi solamente a Orgosolo e a Benetutti: il 31 dicembre i bambini continuano a bussare alle porte delle case, per far riempire i propri sacchetti di stoffa con pane, dolci e altre golosità.
Un altro rito diffuso in Sardegna, descritto minuziosamente da Grazia Deledda, era quello di immergere da due a più grani d’orzo nell’acqua o nell’olio durante la notte del 31 dicembre, così da poter fare delle previsioni sul futuro: a seconda dei movimenti dei chicchi d’orzo, o da quanti si univano tra loro, venivano svelati importanti segreti sulla vita amorosa e familiare.
Durante il Capodanno non mancavano inoltre le filastrocche in lingua sarda: recitate da adulti e bambini, le filastrocche salutavano e accoglievano il nuovo anno in modo propiziatorio. Tra queste si ricorda “A sa noa!”, nella quale veniva dedicata una frase a ogni mese dell’anno, oppure – ancora una volta ne è testimone Grazia Deledda – quella recitata dai bambini durante “su Candelarju”, che cambiava nel caso in cui i bambini non avessero ricevuto i doni cercati di casa in casa.
Impossibile non citare anche la preparazione del pane in casa. “Sa Tunda”, pane circolare tipico dell’oristanese, viene preparato tutt’ora proprio per le festività natalizie e consumato fino all’ultimo giorno dell’anno; “sa Tundina”, pane anch’esso circolare, viene rigorosamente preparato in occasione de “sa Candelaria” ed è anche uno dei doni più attesi in quell’occasione. Non può invece mancare a Bultei un particolare tipo di pane, importantissimo durante il pranzo del primo gennaio: “su Cabude”, pane circolare e a forma di corona, viene posto dal padre sul capo del primogenito, come segno di buon auspicio.