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Antonio Lai, 85enne foghesino, racconta la leggenda “De Sa Crusci de Pratta” a Perdas

 

 

Antonio Lai, foghesino di 85 anni, ci parla della leggenda “De Sa Crusci de Pratta (croce di argento)”.

I foghesini erano grati a Dio per aver concesso loro la salvezza. Si racconta che gli abitanti di Perdasdefogu si trasferirono in questa zona a seguito dei continui attacchi e saccheggi da parte dei Saraceni, i quali rapivano sia le donne che gli uomini con lo scopo di venderli ai ricchi. 

La gente dovette adattarsi ad una nuova vita e di certo non fu facile. Non possedevano abitazioni e denaro. Ricominciarono tutto da capo. Il fatto sorprendente è che questi uomini continuarono comunque ad essere devoti, tanto da riuscire a realizzare con sacrificio una grandissima croce fatta di argento. Essa veniva utilizzata durante le processioni di paese. Una tradizione che si tramandò fino al 1800 circa, periodo in cui accadde la terribile disgrazia.

I foghesini affermano che la scena si svolse durante la processione di San Sebastiano. In quel periodo le feste popolari assumevano un valore significativo, tale da imporre al paese la precoce organizzazione di ogni singolo evento. Le processioni avvenivano durante il tardo pomeriggio (poco prima del tramonto) e si svolgevano in questo modo: in prima fila gli uomini avevano il compito di tenere e proteggere la croce.

Dietro di loro un carro trainato dai buoi sosteneva il santo. Seguito dal sacerdote, dai confratelli e dalle donne che disposte in due file indiane recitavano con passione il santo rosario. Il resto della popolazione accompagnava l’evento.

«Era un tardo pomeriggio di gennaio e la forza del gelido vento pareva volesse impedire lo svolgimento della processione. Nonostante ciò, i devoti decisero comunque di onorare il Santo – racconta Antonio Lai – Gli uomini, invasi da uno strano presentimento, tenevano d’occhio la croce.  Erano arrivati circa a metà del percorso quando ad un tratto dei cavalieri di Mandas giunsero al galoppo e con maestria riuscirono, mediante l’utilizzo di una corda, a sfilare la croce dalle mani di colui che la teneva e  a scappare via. In quel momento persino il cielo sembrava essere arrabbiato e, scatenando una moltitudine di fulmini e saette, provocò grida di spavento da parte delle donne intente a proteggere i propri figli». 

«Dalla folla qualcuno urlò parole in latino non comprensibili a tutti – prosegue l’anziano foghesino – Alla processione erano presenti anche altri mandaresi, il cui compito era quello di bloccare le persone per impedire l’inseguimento dei loro alleati. I foghesini riuscirono ad opporsi e armarsi in poco tempo, eseguendo la strage dei nemici. Qualcuno montò a cavallo con l’intento di rimpossessarsi della croce rubata. A Mandas non c’era traccia dell’oggetto e la gente impaurita taceva. I cavalieri nemici infatti erano stati così furbi da nascondere il bottino in un posto tuttora ignoto, promettendosi che sarebbero tornati a riprenderlo. Passò una settimana dall’accaduto quando soltanto a Mandas giunse la peste che decimò parte della popolazione, tra cui anche alcuni cavalieri. Passata l’epidemia i sopravvissuti decisero di incamminarsi verso il ricco bottino con l’intento di recuperarlo ma, giunti a metà strada, una febbre alta si impossessò dei loro corpi: la peste era tornata. In seguito vennero eseguiti altri 2 tentavi, che divennero sempre causa di una nuova pestilenza. I pochi mandaresi sopravvissuti rinunciarono alla croce, associando ad essa la causa della loro sfortuna. Oggi nessuno sa dove essa possa essere e chissà tra quanto tempo e se mai verrà rinvenuta. Di certo non cesseremo mai di domandarci se la maledizione sia ancora presente». 

 

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