Addio ad Alvaro Vitali, il comico che fischiava come un merlo e faceva ridere l’Italia senza vergogna

La morte di Alvaro Vitali segna la fine di un’epoca in cui la risata non conosceva filtri né ambizioni d’autore, fatta di peti fragorosi, doppi sensi elementari, occhi storti e buchi della serratura da cui sbirciare curve proibite. Un comico spontaneo, autentico, nato elettricista a Trastevere e diventato, suo malgrado, icona nazionale grazie al ruolo di Pierino, incarnazione grottesca dell’italiano medio in formato bambino, tra parolacce e scorrettezze elevate a cifra stilistica.
Addio ad Alvaro Vitali, il comico che fischiava come un merlo e faceva ridere l’Italia senza vergogna.
La morte di Alvaro Vitali segna la fine di un’epoca in cui la risata non conosceva filtri né ambizioni d’autore, fatta di peti fragorosi, doppi sensi elementari, occhi storti e buchi della serratura da cui sbirciare curve proibite. Un comico spontaneo, autentico, nato elettricista a Trastevere e diventato, suo malgrado, icona nazionale grazie al ruolo di Pierino, incarnazione grottesca dell’italiano medio in formato bambino, tra parolacce e scorrettezze elevate a cifra stilistica.
Lo aveva notato Fellini, non per un’intuizione poetica ma perché sapeva fischiare come un merlo. Era il suo talento segreto: un fischio limpido, contadino, da pecorara, che bastò al regista per dirgli “Prendete quello là”. E quel “quello là” diventò un volto che attraversò la commedia sexy all’italiana con la goffaggine di chi non appartiene a nessun canone ma riesce a far ridere anche solo entrando in scena. Vitali non era bello, non era atletico, non era sofisticato. Era piccolo, buffo, sgraziato, con una mimica caricaturale e un’ironia da spogliatoio. Ma funzionava. Fu spalla, macchietta, comparsa eccellente per registi come Magni, Risi, Monicelli, Steno, Sordi, fino a diventare protagonista suo malgrado di una comicità che parlava al basso ventre del Paese. Accanto a Lino Banfi subiva ceffoni e sputi, ingoiava fischietti, si prestava alle gag più demenziali con una dedizione quasi atletica. Poi arrivò Pierino, la maschera che lo consacrò e lo consumò: nei primi anni ’80 ogni italiano conosceva le sue battute, le sue risatine isteriche, il suo baschetto blu con pompon rosso. In una scena divenuta simbolo, accendeva una candela con un peto. E l’Italia applaudiva.
Ma il personaggio era troppo fragile per durare: senza struttura narrativa, senza arco drammaturgico, Pierino si esaurì in fretta, lasciando Vitali in bilico tra nostalgia e tentativi disperati di rilancio. Provò con Giggi er bullo, con Gian Burrasca, poi con Paulo Roberto Cotechino, una parodia del mondo del calcio che anticipava inconsapevolmente l’estetica del gollonzo. Ma il pubblico aveva già voltato pagina. Gli anni Ottanta finirono e con loro la stagione della commedia scollacciata. Vitali, rimasto aggrappato al ricordo, cercò di reinventarsi, ma senza più il favore di produttori né colleghi. Tentò la carta dei reality, comparve nei talk, raccontò barzellette negli alberghi, sempre con quel cappellino da Pierino che era ormai un segno di malinconia più che di riconoscimento. Alla fine si ritrovò solo, dimenticato, a contare una pensione da 1400 euro e a leggere in tv una lettera d’amore alla moglie che lo aveva lasciato. Chiedeva di tornare insieme. Ma la busta, simbolo di un’ennesima gag che questa volta non faceva ridere nessuno, restò chiusa. I titoli di coda della sua carriera si sovrappongono al provino per Satyricon, quando Fellini lo scelse perché fischiava meglio dell’altro ragazzo. Una scelta istintiva, come era lui. Così se ne va Alvaro Vitali, comico spontaneo, irriverente, mai sofisticato, ma capace per un breve momento di far ridere un’intera nazione. Anche solo con un peto. Anche solo con un fischio.

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