Lo sapevate? Chi erano gli sciuscià?

Una parola che avrete sicuramente sentito in molti film. Chi erano gli sciuscià? Scopriamolo in questo articolo.
Lo sapevate? Chi erano gli sciuscià?
Una parola che avrete sicuramente sentito in molti film. Chi erano gli sciuscià? Scopriamolo in questo articolo.
Lo sciuscià, termine di derivazione napoletana dall’originale inglese “shoeshine” (ossia “lustrascarpe”), rappresentava una figura peculiare e ormai dimenticata. Questa parola, che oggi è caduta in disuso, indicava i bambini, solitamente di età compresa tra i 7 e i 12 anni, noti come “scugnizzi”, che vivevano in condizioni di povertà e si arrangiavano per le strade dei quartieri più poveri di Napoli. Il loro principale mezzo di sostentamento consisteva nel lucidare le scarpe o svolgere piccoli lavoretti per gli adulti, in cambio di pochi soldi. La parola “sciuscià” divenne famosa in tutta Italia grazie al film di Vittorio De Sica del 1946, appunto intitolato “Sciuscià”.
Il termine sciuscià ebbe origine a Napoli durante la Seconda Guerra Mondiale, precisamente durante il periodo dell’occupazione statunitense (1944-1945), quando i bambini della città cercavano di guadagnare qualche lira svolgendo il lavoro di lustrascarpe. La pronuncia inglese, “shoeshine”, si trasformava in una versione napoletanizzata, diventando così “sciuscià”.
Il lustrascarpe era colui che, professionalmente, si dedicava a lucidare le scarpe altrui, solitamente per strada. Un tempo diffuso in molte parti del mondo, questa professione sta gradualmente scomparendo in Europa e in Nord America, e oggi viene considerata più come una soluzione temporanea che come un vero e proprio lavoro. La figura dello sciuscià rappresenta un pezzo di storia dimenticato, un simbolo di una realtà sociale e culturale passata che è scomparsa nel corso del tempo.
Durante il periodo del dopoguerra e delle grandi migrazioni dall’Italia verso gli Stati Uniti, nell’Italia meridionale, coloro che guadagnavano da vivere facendo il lavoro di lustrascarpe per le strade venivano talvolta chiamati “sciuscià”. Questo termine derivava dalla corruzione e dall’italianizzazione della parola inglese “shoe-shiner”.
Tra i personaggi famosi di origini italiane che si sa aver svolto questo mestiere durante la loro giovinezza vi sono, ad esempio, Giuseppe Petrosino e Al Pacino.
Gli strumenti utilizzati dal lustrascarpe consistevano in una cassetta di legno dalla quale sporgevano due sagome di legno su cui il cliente poteva poggiare i piedi. Inoltre, erano presenti diversi tipi di spazzole, lucido e anilina nera o marrone, a seconda del colore delle scarpe che dovevano essere lucidate.
Questa professione richiedeva abilità manuali e attenzione ai dettagli per ottenere una lucidatura impeccabile. Il lustrascarpe, con i suoi strumenti semplici ma efficaci, offriva un servizio essenziale per mantenere l’aspetto curato e brillante delle scarpe dei clienti. La cassetta di legno fungeva da punto di incontro tra il lustrascarpe e il cliente, creando un’atmosfera di scambio sociale e di cura personale.
Oggi, il mestiere del lustrascarpe è diventato sempre più raro, poiché le scarpe moderne spesso richiedono metodi di manutenzione diversi. Tuttavia, la figura dello sciuscià rimane una testimonianza di un’epoca passata e di una tradizione artigianale che ha contribuito alla vita quotidiana e alla cultura delle strade italiane.
A Napoli, il regno degli sciuscià era rappresentato dalla Galleria Umberto I, un importante polo commerciale costruito in stile Liberty tra il 1887 e il 1890 e inaugurato nel 1892. Questo splendido edificio era frequentato dalle persone benestanti e divenne il luogo preferito degli sciuscià, i famosi “lustrascarpe”, per gli ultimi 50 anni. Tuttavia, oggi questa tradizione è scomparsa. Anche l’ultimo sciuscià, Antonio Vespa, che continuava a praticare questa professione all’ingresso della Galleria, sul lato di Via Toledo, è recentemente scomparso.
La Galleria Umberto I rappresentava un importante punto di incontro sociale e commerciale, dove le persone si riunivano per fare shopping, socializzare e godere dell’atmosfera unica dell’epoca. Gli sciuscià, con i loro attrezzi e il loro lavoro meticoloso, offrivano un servizio essenziale per mantenere le scarpe dei frequentatori della Galleria pulite e lucide.
Lo sciuscià, come figura simbolica, è diventato noto anche grazie al film “Sciuscià” del 1946, diretto da Vittorio De Sica. Questo film è considerato uno dei capolavori del neorealismo italiano e fu il primo film straniero a vincere il premio Oscar come miglior film. “Sciuscià” racconta la storia di due giovani sciuscià a Napoli e affronta temi come la povertà, l’infanzia difficile e le ingiustizie sociali.
L’eredità degli sciuscià e la loro presenza nella Galleria Umberto I rimangono una testimonianza della storia e della cultura di Napoli. Anche se oggi questa tradizione è scomparsa, le storie e i ricordi degli sciuscià continuano a vivere come parte integrante del patrimonio culturale di Napoli e del cinema italiano.
Lo sapevate? L’Obelisco di San Domenico è una delle opere più amate dai napoletani
Tra i monumenti più rinomati e amati di Napoli, spicca l'incantevole obelisco di San Domenico, un simbolo di magnificenza e grandiosità. Sovrastando maestosamente la città, la sua cima è adornata da una statua bronzea raffigurante San Domenico benedicente. Collocato di fronte alla maestosa chiesa di San Domenico Maggiore, questo monumento rappresenta una testimonianza tangibile dell'abilità artistica e della fede del popolo napoletano.
Lo sapevate? L’Obelisco di San Domenico è una delle opere più amate dai napoletani.
Tra i monumenti più rinomati e amati di Napoli, spicca l’incantevole obelisco di San Domenico, un simbolo di magnificenza e grandiosità. Sovrastando maestosamente la città, la sua cima è adornata da una statua bronzea raffigurante San Domenico benedicente. Collocato di fronte alla maestosa chiesa di San Domenico Maggiore, questo monumento rappresenta una testimonianza tangibile dell’abilità artistica e della fede del popolo napoletano.
La sua origine affonda le radici nel lontano 1656, un periodo segnato dalla diffusione dell’epidemia di peste che flagellava la città. In un atto di devozione e speranza, i cittadini di Napoli fecero richiesta dell’obelisco come ex-voto, pregando per la salvezza e la protezione della loro amata città. Fu così che nacque l’idea di erigere questa maestosa struttura.
La realizzazione dell’obelisco di San Domenico fu possibile grazie all’instancabile impegno e al contributo dei padri domenicani, che si dedicarono a trasformare l’idea in una sontuosa realtà. L’opera che ne scaturì è di una grandiosità imponente: una struttura piramidale slanciata, decorata con stemmi nobiliari, putti giocosi, medaglioni rappresentanti momenti significativi della storia religiosa e busti dei santi domenicani, che simboleggiano la forza e la devozione di questa antica ordine religioso.
Conosciuto anche come “guglia di San Domenico”, questo obelisco è un capolavoro scultoreo barocco, che incanta gli occhi dei visitatori con la sua eleganza e raffinatezza. Cronologicamente, si tratta del secondo grande obelisco eretto nella città di Napoli, dopo quello dedicato a San Gennaro. Questa magnifica struttura rappresenta un legame tangibile con la storia e la tradizione di Napoli, e continua a ispirare meraviglia e ammirazione in coloro che la contemplano.
Inizialmente, i domenicani affidarono la commissione dell’opera a Cosimo Fanzago, un rinomato artista dell’epoca che si trovava già impegnato nella realizzazione di altre due opere simili: l’obelisco di San Gennaro, i cui lavori erano iniziati nel 1636, e la statua di San Gaetano, che era stata avviata nel 1657. Fanzago dedicò i suoi sforzi al progetto dell’obelisco di San Domenico dal 1656 al 1658, finché non venne sostituito, a causa della sua lenta progressione lavorativa, dall’architetto bergamasco Francesco Antonio Picchiatti. Picchiatti mantenne la direzione del cantiere fino al 1666 e apportò significative modifiche al progetto originale, le cui tracce sono riscontrabili solo nell’ornamentazione parziale della base in marmo e bardiglio.
Dopo una breve interruzione dei lavori, intorno al 1680 circa, sotto la guida di Lorenzo Vaccaro, allievo di Fanzago, che subentrò a Picchiatti, i lavori ripresero solo dopo quasi cinquant’anni, nel 1736, grazie all’intervento del figlio di Vaccaro, Domenico Antonio Vaccaro.
La guglia fu finalmente completata nel 1737, anche se ancora mancava la statua di San Domenico, la cui attribuzione rimane incerta. Infatti, l’opera venne collocata sulla sommità del monumento solo nel 1747, due anni dopo la morte dello scultore napoletano, che aveva però realizzato un bozzetto dell’opera.
Questo lungo e articolato processo di realizzazione dell’obelisco di San Domenico testimonia le sfide e le complessità che si presentarono lungo il cammino. Nonostante le varie interruzioni e i cambiamenti apportati al progetto nel corso del tempo, l’obelisco si erge oggi come un magnifico esempio dell’ingegno e della perseveranza degli artisti coinvolti nella sua creazione.
Il progetto originale di Fanzago prevedeva la creazione di una struttura piramidale composta da tre basamenti distinti. Il primo basamento, realizzato in piperno, fu l’unico elemento dell’opera a essere diretta opera dello stesso Fanzago. Gli elementi decorativi in marmo furono invece realizzati da Lorenzo Vaccaro e includono sirene, “giarre” agli angoli e festoni lungo i lati.
Quando il progetto passò nelle mani di Picchiatti, si iniziò a rivestire con marmo gli ordini superiori e si pianificò l’aggiunta di sculture. Tuttavia, queste modifiche furono effettivamente realizzate solo quando l’opera fu affidata a Domenico Antonio Vaccaro, figlio di Lorenzo. Fu lui a occuparsi non solo degli elementi decorativi mancanti, ma anche a posizionare le sculture che erano state realizzate da Fanzago durante il suo primo progetto nel corso del Seicento, ma che non erano mai state collocate sul monumento. Alcuni esempi di queste aggiunte includono gli stemmi della città di Napoli, dell’ordine dei domenicani, dei re di Spagna e dei viceré d’Aragona, che sono posizionati nel secondo ordine. Inoltre, i quattro putti posti agli angoli del basamento del terzo ordine e i busti dei quattro santi domenicani, ossia san Pio V, sant’Agnese, san Vincenzo Ferrer e santa Margherita, che si trovano nei quattro medaglioni sulle facciate del monumento nel terzo ordine.
Grazie all’intervento di Vaccaro, l’obelisco di San Domenico acquisì una ricca ornamentazione scultorea, arricchendo ulteriormente la sua bellezza e la sua maestosità. Le sculture e i dettagli marmorei si fondono armoniosamente con la struttura piramidale, creando un’opera d’arte unica nel suo genere che continua ad affascinare e ispirare coloro che la ammirano.
I domenicani in un primo momento affidarono la committenza dell’opera a Cosimo Fanzago, all’epoca impegnato anche nella conclusione di un altre due opere simili, l’obelisco di San Gennaro, iniziato nel 1636, e la statua di San Gaetano, iniziata nel 1657. Il Fanzago lavorò al progetto di San Domenico tra il 1656 e il 1658, fin quando non gli successe all’incarico, per motivi legati alla poca celerità dell’architetto bergamasco, Francesco Antonio Picchiatti, il quale mantenne il cantiere fino al 1666 modificando sensibilmente il progetto originario, di cui peraltro restano tracce parziali solamente nell’ornamentazione della base in marmo e bardiglio.
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