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Il bellissimo libro di Elio Vittorini sulla Sardegna degli anni ’30: “Cagliari città diversa da qualsiasi altra”

Volete sapere com’era la Sardegna negli anni ’50? Se desiderate immergervi nelle atmosfere che l’Isola regalava ai visitatori forestieri di quel tempo c’è un libro che dovete assolutamente leggere.

Stiamo parlando di “Sardegna come un’infanzia”, dello scrittore siracusano Elio Vittorini.

La penna siciliana varcò il mar Tirreno negli anni ’30. Il suo reportage, dal punto di vista letterario assai complesso e raffinato, muove dalle sue suggestioni personali, dalle impressioni vivide e sincere di un intellettuale con occhi e cuore aperti verso l’ignoto. E la Sardegna era piuttosto ignota in quel periodo per chi non vi era nato o non la frequentasse spesso.

Alcuni passi in particolare sono una preziosissima testimonianza su come appariva l’Isola più di 90 anni fa. Non un racconto edulcorato e privo di drammaticità quello di Vittorini, capace di testimoniare anche gli aspetti più duri della vita in Sardegna di quel periodo storico, dove in tanti, in troppi, facevano fatica a mettere insieme un pasto dignitoso. Un approccio coerente con la vicinanza dello scrittore agli ambienti della sinistra italiana, di cui è stato anche militante dopo la rottura con il fascismo. Riportiamo alcuni passi piuttosto salienti del reportage.

SU CAGLIARI

“La città ci è apparsa sopra un monte metà roccia e metà case di roccia, Gerusalemme di Sardegna. E per l’ultima volta siamo scesi dal torpedone, che sfiatava acqua come un capodoglio, per la stanchezza forse, caro torpedone, vuoto per sempre di noi. Abbiamo messo piede a terra sotto un portico, dinanzi a una passeggiata lungomare. E subito l’albergo ci ha preso, col piacere di una camera ignota che diventa propria e di avere anche un bagno nella camera.

Condotto su dall’ascensore, con sorpresa vedo dalla finestra che la via è profondissima dentro i palazzi. Ho una finestra ad angolo che mi dà modo di guardare sul porto e la passeggiata lungomare e allo stesso tempo su una larga via di asfalto che risale verso i quartieri alti fino a cozzare contro i bastioni sui cui quelli s’elevano. – Mi sento in un vero albergo d’una vera città, ma non d’una qualunque città, anzi d’una stranissima, diversa da tutte le altre come le conosco e come le immagino. Perché – non so spiegarmi. Vedo mare, vedo piroscafi, vedo gente, vedo automobili, vedo tramvai, vedo case, vedo alberi, vedo quanto è molto comune vedere ovunque, e tuttavia sento che Cagliari è una città assai diversa da qualsiasi altra.

È fredda e gialla.

Fredda di pietra e d’un giallore calcareo africano. Spoglia. Sopra i bastioni pare una necropoli: e che dalle finestre debbano uscire corvi, in volo. I tetti sono bianchi, di creta secca. Da qualche muro spunta il ciuffo nerastro, bruciacchiato, d’un palmizio. Ma non è Africa.

È ancora più in là dell’Africa; in un continente ulteriore, dove si città essa sola. Attorno la terra sfuma in nulla; logora di stagni e saline che sembrano spazi vuoti, spazi puri. E il mare, al di là del cerchio delle gettate, anche lui è di nulla; d’una bianchezza di mare morto”.

NURAGHE LOSA

“Non lontano dal bacino del Tirso abbiamo visitato il nuraghe Lose. Dicono: il più antico meglio conservato di tutta Sardegna. Ma io non lo descriverò. Tutti i nuraghi che ho visto, per me non hanno interesse interno. Piuttosto presenze misteriose, nella campagna, ho sentito il loro fascino e l’ho subíto alle loro coniche apparizioni di pietra sopra pietra; e non più del fascino disumano di certe croci che ho visto sulla strada di Nuoro – immense -: patiboli anzi che segni di Dio; o di certi piccoli cimiteri recinti da siepi di fichidindia in fiore, d’una fioritura vermiglia”.

SASSARI

“E quando è notte piena noi siamo già assai oltre coi nostri occhi di gatto spalancati sulla via maestra. Incontriamo gente a cavallo o lunghe file d’asinelli, che procedono nella nostra direzione. A Sassari, eh! Quanti parafanghi ancora!

Eccoci poi sotto i suoi lumi. Noi nel buio dell’uliveto e Sassari attorno a noi, d’ogni lato, coi suoi popoli di lumi. Entriamo da una parte, tra case e arbusti, ma non è ancora la vera città; che sembra giri dall’altra parte. Ora c’è una valle nera fra noi e il maggior numero di lumi. E più avanziamo più quella valle si allarga, più quei lumi si allontanano.

Ho paura si sia finiti in qualche altro paese, dirimpetto alla Sassari vera, e chiedo al primo che passa se qui è proprio Sassari. Quello mi risponde come gli avessi chiesto se il sole è veramente il sole.

«È Sassari.»”.

NUORO

“Arriviamo a Nuoro attraverso campi d’asfodelo, gialli di stoppie, dopo due o tre ore di corsa sotto la canicola. – A Nuoro tutta la gente delle Barbagie, dell’Ogliastra, del Marghine, guarda come a una capitale. È la capitale del popolo, il villaggio-capo, sebbene prefettizio, città come questi cuori aborigeni possono concepire un città e sentirla vera.

Càlano a Nuoro, dalle montagne, per venderci i prodotti delle loro mani arcaiche, tappeti e merletti, nei quali ricorrono intrecciati i motivi della decorazione sarda: la danza e i cavallini o il capro saltatore, motivi ingenui che il barocco spagnolo non ha sfiorato; grafici; di tremila anni fa. Uomini e donne, gli uomini in bianco e nero, alcuni in mastruca, ch’è un giaccone senza maniche di pelle caprina, con questo caldo!, le donne in rosso e nero, gremiscono le strade spingendosi avanti gli asinelli carichi di mercanzia, che consiste anche in frutta, olio e formaggi. Tutti hanno la testa ben coperta, le donne, con le loro mantelline, tendono a coprirsi il volto fin sotto il naso. Certi uomini, con quegli occhi da lupi e quella barba, si sono avvolta una sciarpa intorno al capo prima di calzare la berretta fenicia. Come avessero il mal di denti. O come sentissero uno strano bisogno di tenere la testa al caldo, chiusa ed oscura, in una fisica intimità. Sono accigliati. Ma le donne no, strepitano con uno strepito da bambine, senza risa, accanitamente loquaci. Hanno tremanti voci, anche se gridano, d’un tono mite e denso, come d’olio, e scorrono una sull’altra. Voci cantanti. Da fanciulle di sedici anni; le vecchie pure”.

 

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