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Lo sapevate? Il pubblicitario sardo Gavino Sanna fu allievo di Andy Warhol

Lo sapevate? Il pubblicitario sardo Gavino Sanna fu allievo di Andy Warhol.

 

Allievo di Andy Warhol, ha studiato negli Usa, lasciando giovanissimo la sua Sardegna, dove è nato (Porto Torres) nel 1942. Le ossa se le è fatte negli Stati Uniti, poi dagli Anni Settanta è stato l’art director di spicco italiano imprimendo una svolta radicale al modo di concepire gli spot. Ha vinto sette Clio, oscar della pubblicità in America, sette leoni a Cannes e si è aggiudicato l’unico telegatto assegnato ai pubblicitari. Celebri le sue pubblicità per Fiat e Barilla: sua l’invenzione del Mulino Bianco e di mille altre campagne anche di impronta sociale.

Gavino Sanna, 80 anni, il creativo italiano «più stimato, copiato e premiato», con 7 Oscar della pubblicità e oltre trenta libri, l’autore di campagne «che fecero epoca», collezionista di caffettiere da western in ferro-smalto, non usa computer e gira al largo «dall’inferno di Internet». Una vita da romanzo. Da Porto Torres dov’è nato, a New York. Dall’Italia di Carosello alla cavalcata americana. Come ha raccontato in una magnifica intervista recente al Corriere della Sera (che qui riportiamo quasi integralmente) si tiene in disparte nella casa-museo di Milano e confessa di amare la solitudine, «che può essere una magnifica compagna». Per tutta la vita, sostiene, ha inseguito una passione e si è rotto la schiena «per andare al massimo, per essere il migliore». Ha fatto campagne elettorali per quattro governatori della Sardegna e se n’è «pentito amaramente».

Sanna rivela che a scuola andava male: “A scuola ero un somaro, bocciato due volte alle medie. I miei genitori non sapevano cosa fare di me. Poi uno zio ebbe un’intuizione. Gavino, suggerì, è il nipote di uno dei pittori più importanti della Sardegna tra 800 e 900, Mario Paglietti: mandatelo all’istituto d’arte Filippo Figari di Sassari. È stata la mia fortuna. Sono stato l’unico allievo dell’istituto promosso con 10 in disegno dal vero. Finita la scuola, andai da un altro zio: Giovanni Manca, pittore, giornalista e caricaturista, collaboratore del Corriere dei Piccoli, inventore dell’arcivernice che rendeva reali i quadri e del sor Cipolla. Quando entrai nel suo studio, a Bergamo, mi sembrava di sognare. Tornai a casa felice, ma a mani vuote. Poi seguii l’indicazione di un amico che lavorava nella più importante agenzia dell’epoca, lo Studio Sigla del commendator Mario Bellavista. Fui assunto con lo stipendio di 45 mila lire al mese, una miseria. Trovai alloggio a Ospitaletto, Brescia. All’alba prendevo il treno dei pendolari per Milano. Mi infilavo sul tram 33 e arrivavo in piazzale Biancamano, sede della Sigla. La città mi appariva enorme, con la neve, il traffico e le latterie dove mi sfamavo a furia di pane e caffellatte. Allo Studio Sigla, che lavorava per Bic e Spic e Span, dovevo indossare un camice cremisi, come tutti i creativi. Stavo in un salone con le penne ben disposte e la carta fine. Non sapendo che fare, disegnavo. E tutti mi si facevano intorno. Il disegno è sempre stato il mio asso nella manica».

Il suo primo cliente importante fu la Perugina, per i Baci Perugina. “Chiamammo un famoso regista-fotografo. Fece uno splendido servizio. Lo slogan era: Ovunque c’è amore c’è un Bacio Perugina. Preparammo i bozzetti e andammo a Perugia, ma inaspettatamente fummo presi a male parole. Bocciati. In una settimana dovevamo rivedere tutto, senza più soldi. Trovammo uno stagno e una barchetta sul Lambro, un fotografo di matrimoni e due modelli improvvisati: io stesso e una segretaria, molto carina, appena assunta. Fu il successo che sappiamo».

La vita andò avanti: «Passai alla Ata Univas e ottenni il primo stipendio accettabile, 240 mila lire, ma rimasi solo un anno. Trovai alloggio da una sartina sposata con un investigatore privato che riceveva nello Studio Lince. Lessi sul giornale che un’agenzia di marketing cercava collaboratori e passai alla Lintas. Creammo l’uomo in ammollo di Franco Cerri. Il copy nel frattempo se n’era andato alla Mc Cann Erickson e poco dopo mi chiamò con sé. Lui era Massimo Magrì e divenne un bravo regista. Avevamo commesse di Gillette, Esso, Motta. Ci arrivavano le “pizze” americane: ero affascinato. Non ci misi molto a decidere: mollai il posto e volai a New York».

Qui cominciò la vita negli Usa di Gavino Sanna: «Prima di tutto mi iscrissi a un corso di inglese. Dormivo nel ricovero dei ragazzi cattolici. Intanto un grafico romano che aveva lavorato a Cuba ed era diventato il pittore della Rivoluzione mi fece incontrare il titolare di una piccola agenzia: John Paul Itta, origini greche. Gli portai i miei disegni. Mi assunse e cominciò un periodo magnifico. Conobbi Patricia, una bellissima hostess della Pan-Am nata a Memphis: divenne mia moglie. Grazie a lei ottenni un colloquio con il direttore della Mc Cann. Mi assegnò la campagna per Tampax e subito dopo quella per la famosa birra Miller. Tra i nostri clienti c’erano la Coca Cola e il governo Usa. Strinsi la mano a Richard Nixon: non mi fece una grande impressione».

Sanna scalava le montagne americane, per lui un successo dopo l’altro.

«Entrai nel tempio della creatività internazionale, Scali McCabe & Sloves. Avanti paisà, mi disse Sam Scali, il capo. Mi consegnarono il budget per Revlon. Lavorai con Richard Avedon, il grande fotografo, e Lauren Hutton, l’attrice di American Gigolò. Facemmo insieme un’indimenticabile campagna per i prodotti di bellezza. Lei nuda, e la crema: incantevole».

Come nasce la pettinatura a caschetto?

«Da bambino avevo un taglio alla tedesca. Ma, per eredità di famiglia, ho le orecchie come Dumbo, perciò le copro con i capelli. In Usa li tenevo fino a mezza schiena. Mi scambiavano per un apache: di che tribù sei, Gavino?».

I suoi incontri: Frank Sinatra, Elvis Presley, Paul Newman, Catherine Deneuve, Luciano Pavarotti, Sophia Loren, Alain Delon, Christian Barnard. E poi lui, Andy Warhol.

«Appena arrivato seguivo le sue lezioni sul cinema. Raccontava di sé, spiegava come aveva girato Sleep, un anti-film in cui John Giorno dorme per 5 ore e 20 minuti. Il suo studio era un covo di gente bizzarra. Girava sporco di vernice, con la Polaroid in mano. Aveva una collezione di parrucche: la preferita era rosa. Un rivoluzionario. Attaccatissimo alla madre. Diceva: gli italiani mi sono simpatici, hanno sempre la patta sdrucita perché continuano a toccarsi lì. Lo incontravo spesso al Club 54, seduto in un angolo con Truman Capote».

Poi al culmine del successo tornò in Italia.

«Un’agenzia internazionale, Benton and Bowles, voleva aprire una sede in Italia e mi fece un’offerta irrinunciabile. Davanti a me si stendeva la Milano da bere. Avevo appena divorziato. Il mio matrimonio era stato seppellito dalla crisi del settimo anno. Decisi che avrei rivoluzionato il linguaggio della pubblicità e per questo mi feci molti nemici. Una mano me la diede anche Berlusconi, che con le sue tv stava cambiando le regole della comunicazione pubblicitaria. Arrivarono clienti come Barilla, Giovanni Rana, Fiat, Simmenthal. Poi andai a Parma a conoscere Pietro Barilla e i figli. Lui mi portò in un piccolo ufficio. Mi disse: vede, questo non è solo il marchio della pasta, ma il nome della mia famiglia, ne tenga conto. È stato il brief più bello della mia carriera. Proposi un film di 90 secondi. Un distinto signore dalla stazione centrale di Milano viaggia per tornare in famiglia. In tavola trova pacchi di pasta. Dove c’è Barilla c’è casa, lo slogan. Tutto sbagliato, mi sgridò Pietro. Una settimana dopo si scusò: Gavino, è un capolavoro. Barilla faceva le vacanze a Cortina e il suo migliore amico era Indro Montanelli. Che un giorno lo incontrò: ho visto il tuo spot, caro Pietro, è davvero bellissimo. Arrivò la bambina che torna a casa con il gattino e mette il fusillo in tasca a papà. Fioccarono i premi».

Con Berlusconi ha lavorato a lungo.

«L’ho conosciuto al rientro in Italia. Mi invitò al Gallia per una tavola rotonda. Vedevo che mi fissava da lontano. Mi raccontò: quando ero giovane portavo i capelli come i suoi, poi li ho tagliati e la mia vita è cambiata. Mi dia retta: li tagli anche lei. Se lo fa, ci daremo del tu. È diventato il titolo di uno dei miei libri».

Poi il ritorno in Sardegna per la viticoltura e le cantine ma questa è un’altra storia..

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