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Morire di lavoro, 11 donne sacrificate per interesse economico: la tragedia di Montevecchio del maggio 1871

Erano le 18.30 del 4 maggio 1871. Una trentina di donne, come ogni giorno, concludeva le proprie sedici ore di lavoro nel cantiere Azuni, uno dei tanti della miniera di Montevecchio, e raggiungeva il dormitorio per il meritato riposo. Stava sul tetto dell’edificio un’enorme vasca piena d’acqua – usata per il lavaggio dei minerali – che quella sera si ruppe, provocandone il crollo e la morte di undici operaie.

Antioca Armas 32 anni, Elena Aru, 10 anni, Anna Atzeni 12 anni, Rosa Gentila, 15 anni Anna Melis 11 anni, Luigia Murtas 27 anni, Anna Peddis 14 anni, Anna Pusceddu 14 anni, Caterina Pusceddu 10 anni, Luigia Vacca 15 anni e Rosa Vacca 50 anni

Cernitrici a Montevecchio [Archivio fotografico del Comune di Iglesias]

Delle undici vittime – in larghissima parte originarie di Arbus – otto erano poco più che bambine, aventi meno di quindici anni. In merito alla tragedia – una delle pagine più nere della storia del lavoro femminile nell’Isola – fu aperta un’inchiesta, che si concluse con l’assoluzione piena di tutti i dirigenti. Nessuno – si disse – poteva essere considerato responsabile dell’incidente, se non il fato. Certo è che in Sardegna, a fine ‘800, la sicurezza sul lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori – e, sopratutto, di quelli delle lavoratrici – godevano di un’attenzione decisamente scarsa. Paghe misere, turni massacranti e totale o quasi subordinazione al lavoro dei loro colleghi uomini: era questa la condizione delle operaie impiegate presso le numerose miniere dell’Isola. Un impiego disprezzato, difficile e pericoloso, che veniva accettato come un male necessario, date le precarie condizioni sociali ed economiche in cui versavano queste donne giovani e giovanissime, spesso orfane o vedove.

 

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