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“Io, Ayub Aftab, pakistano, sarò il prossimo sindaco di Cagliari”

Articolo di Martina Chessa

Ayub Aftab ha 32 anni ed è arrivato in Sardegna dal Pakistan nel 2002. Oggi è proprietario di un piccolo e colorato negozio di abbigliamento nella centralissima Stampace. Dopo il diploma all’Istituto professionale Meucci, e una breve parentesi lavorativa a Londra, è tornato in Sardegna dove intende mettere su casa e famiglia. Non solo. Lui vuol fare di più: «Tra cinque anni – dice sicuro  – sarò io il sindaco di Cagliari».

Per ora, all’attivo, ha una candidatura alle ultime elezioni nelle liste del Pd. Diventare sindaco della propria città non è facile, ma l’uomo dall’aria simpatica, che trascorre la maggior parte del suo tempo seduto alla sua grande scrivania ordinata, non è solo un pakistano che ha deciso di commerciare vestiti per vivere. Ayub, infatti, è un uomo determinato, che si sente cittadino italiano a tutti gli effetti, che ama la città in cui vive e si ritrova nei sorrisi della gente e nel cielo azzurro di Cagliari, quasi mai grigio contrariamente a quello di Londra, “dove è facile guadagnare bene, ma non c’è spazio per gli affetti e la vita vera”, dice.

Per Ayub il lavoro è indispensabile ed è sinonimo di sacrificio, fatica e giusta motivazione: «Non riesco a immaginare una vita non lavorativa, ma ci sono altri elementi importanti come la famiglia, l’altruismo verso i più deboli e gli anziani. Ed è proprio dagli anziani che vorrei ripartire. Quando sarò sindaco di Cagliari, Inshallah, mi occuperò prima di tutto di loro. Sa quanti non mangiano? Sa quanti vorrebbero andare alla Caritas, e si vergognano? Io a tutti loro darò tre pasti al giorno, se Dio vuole».

Inshallah è un termine che ricorre spesso, nell’intercalare di Ayub. L’espressione letteralmente significa “Se Dio vuole”. «Gli anziani devono essere aiutati per primi perché a loro non è riconosciuto quasi nulla. Darei loro l’opportunità di andare prima in pensione».

Ma il suo progetto è più vasto, non si ferma solo agli anziani, comprende anche i poveri, a proposito dei quali afferma: «Bisognerebbe far partire attività che garantiscano tre pasti al giorno per chi non ha lavoro, o ha da pagare troppe tasse o un affitto troppo alto, o perché non ha casa… io non voglio vedere pezzi di carta che mi confermano lo stato di una persona. La burocrazia è un limite. Mi basterà vedere un documento di identità e lavorare direttamente sulle persone, cercando di ascoltarle per davvero e offrendo loro una mano d’aiuto». Quando afferma che «Tutti, poveri, anziani, stranieri e giovani fanno parte di una grande famiglia che bisogna tutelare» la voce è rotta e lo sguardo, che all’inizio è lontano, alla fine rivela una forza disarmante.

Ayub, però, non presta orecchio solo agli altri, ma anche a Dio, e molte volte gli scappa l’espressione “Inshallah” e la usa come un mantra. D’altronde nell’Islam l’espressione manifesta la speranza di un credente affinchè un evento possa davvero realizzarsi. Sembra quasi che la voglia di rendere concreto il suo desiderio gli arrivi proprio dalla fede. Se gli si domanda: «E le risorse, per mandare in pensione prima i lavoratori, per pagare i pasti?».  «Se Dio vuole, sarà così» risponde, sicuro. Una fede certa, che magari verrà davvero messa alla prova dalla cartina del tornasole dell’urna, tra cinque anni.

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