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Piero Marras sabato all’Hotel Corte Bianca: vi presento qualche brano del mio nuovo lavoro

Sabato si esibirà all’Hotel Corte Bianca di Cardedu, in occasione dell’evento “Terra Nostra, Terra dei Centenari”, il tema dell’evento è la longevità dei sardi legata al cibo e allo stile di vita tutto isolano. Quest’anno ha festeggiato i 40 anni di carriera, qual è il segreto della sua longevità artistica?

La coerenza. Non si può prescindere da ciò che si è, dal proprio vissuto, dalle proprie origini. A proposito di longevità dei sardi, mi viene in mente un parallelo proprio con uno dei nostri cibi tipici: il formaggio. Possiamo anche comprare il formaggio del supermercato, prodotto in maniera industriale, ma ci basta assaggiare un pezzo di quello prodotto artigianalmente secondo la nostra tradizione millenaria e ci rendiamo conto della differenza. Lo stesso vale per le canzoni, per la musica. Un brano, quando è sentito, quando è sofferto, quando chi l’ha composto ci ha messo dentro il proprio vissuto onestamente, genuinamente senza dimenticare da dove viene, è destinato a durare nel tempo. Quando nei miei concerti canto “Figlio del re” e mi rendo conto che pur essendo uno dei miei primi brani, il pubblico anche quello più giovane lo conosce, capisco che la ragione di questa longevità risiede proprio in questa coerenza che mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro. E per me è motivo di grande soddisfazione quando incontro persone che mi riconosco e che anzi che chiedermi l’autografo o un selfie, mi stringono semplicemente la mano, sento che stanno mi apprezzano umanamente e non solo artisticamente.

 

Ha composto brani in italiano e brani in sardo, quale lingua le è più congeniale?

In realtà è il bilinguismo che mi è congeniale, la possibilità di poter utilizzare due lingue, moltiplica la creatività, amplia la possibilità di comunicare efficacemente. Io ho cominciato a scrivere in sardo negli anni ’80, quando stava cominciando la crisi dei cantautori italiani. Anche De Andrè lo fece in quel periodo, perché a dispetto di quanti lo definiscono un dialetto, il sardo è una lingua, un modo di pensare, espressione di un’identità popolare ben definita. Mi ha offerto la possibilità di utilizzare una cifra espressiva diversa da quella italiana. Il sardo ha una capacità di sintesi incredibile, in pochissime parole, a volte una sola, riesce a esprimere concetti che in italiano per essere compresi avrebbero bisogno di frasi lunghissime. Per questo ho molto apprezzato l’invito che mi hanno rivolto gli organizzatori di Terra Nostra, hanno scelto me per un evento che parla di Sardegna e cibo, un connubio dal forte carattere identitario.

Tra i giovani sono veramente pochissimi quelli che scrivono canzoni in sardo, secondo lei c’è spazio nel panorama musicale isolano, per questo genere di testi?

Non sono molto ottimista, come dicevo prima non si tratta solo della lingua, ma di tutto il bagaglio di cultura, tradizione e identità che alla lingua sarda si lega. Negli ultimi decenni il sardo è stato bistrattato, ai giovani non viene insegnato più, non vengono più trasmesse le tradizioni. Se vuoi scrivere un brano in sardo, non puoi prescindere dal luogo da cui provieni, comunque sei stato plasmato in questa terra, ma per poterla trasmettere questa tua origine la devi conoscere, forse ai giovani manca questa consapevolezza, perché non viene loro insegnata. Un brano può anche essere scritto in sardo, ma se poi nei contenuti non parla sardo è destinato a durare poco.

Oggi moltissimi giovani devono andar via per poter lavorare, a lei è mai capitato nel corso della sua carriera di dover scegliere se andare via o restare?

Certo. E ho scelto di restare. All’inizio lavoravo per la EMI, e quando dovevo registrare andavo a Roma e Milano, qua non c’era niente all’epoca. Ma non resistevo più di un mese, mi alzavo la mattina, guardavo fuori il cielo plumbeo di Milano e pensavo “adesso mi viene addosso”. Ho pagato lo scotto dell’isolamento, se fossi rimasto fuori probabilmente la mia carriera ne avrebbe giovato, ma è una scelta che rifarei, quando restavo troppo a lungo fuori dalla Sardegna mi sembrava di sentirmi depresso.

In passato si è occupato di politica, tra qualche mese la Sardegna è chiamata a scegliere il nuovo governatore, secondo lei è l’indipendentismo la ricetta per uscire da questa interminabile crisi economica in cui versa l’Isola?

Gli indipendentisti ci sono sempre stati e anche io lo sono, anche se non nelle posizioni più estreme. Colori politici non ne seguo più, anche se i miei ideali sono di sinistra, bisognerebbe presentarsi decisi al governo nazionale e chiedere con fermezza alcune concessioni che servirebbero alla Sardegna per ripartire, ma parlare di una vera e propria indipendenza è prematuro, non siamo pronti, fare tutto da soli è difficile, siamo pochi e divisi.

Quindi è vero che siamo “pocos, locos y mal unidos”?

In parte sì. Le forze politiche dovrebbero superare le divisioni e presentarsi compatte al governo centrale per pretendere una continuità territoriale vera. I trasporti rappresentano una della maggiori criticità, è giusto puntare sul turismo, ma se raggiungere la Sardegna rimane così costoso la gente sceglie mete più economiche. Dobbiamo chiedere interventi seri per favorire la formazione di posti di lavoro, non ci serve un piccolo reddito regalato, che sembra un elemosina, non si devono privare i giovani della loro dignità, me si deve offrire loro l’opportunità di lavorare. È necessario fermare questa emorragia di ragazzi costretti a partire. I paesi si stanno spopolando con una rapidità impressionante, anche l’immigrazione se gestita in un certo modo può diventare una risorsa, potrebbero essere gli immigrati a far ripartire l’economia, ripopolando i paesi semi vuoti. Un paese popolato è un paese che ha bisogno di negozi, scuole, palestre, medici, a quel punto anche i nostri ragazzi non avrebbero più bisogno di andar via. Ma abbiamo bisogno di superare certi pregiudizi, fa riflettere il caso del sindaco di Riace, per aver aiutato gli immigrati è diventato una specie di marziano o peggio un criminale.

Sabato si esibirà da solo col suo pianoforte. Sarà un concerto intimo in cui presenterà alcuni brani inediti che fanno parte del suo nuovo lavoro che uscirà a novembre, ci racconta di cosa si tratta?

Si chiama “Storie Liberate” ed è il frutto di un lavoro durato 4 anni. Sono due CD, uno in italiano e uno in sardo, “Istorias”. Qualche anno fa è partito il progetto di digitalizzazione degli archivi delle carceri sarde. Tra i vari documenti raccolti sono state recuperate moltissime lettere scritte dai detenuti di tutte le colonie penali della Sardegna, dai primi del ‘900 ad oggi, censurate e mai recapitate ai destinatari. Vittorio Gazale, coordinatore del progetto, mi ha proposto di leggerle. Sono delle lettere bellissime, cariche di umanità, di tormento. Leggendole mi sono sentito io stesso un carcerato, mi sono immedesimato e ho deciso di raccontarle in musica. Per questo si chiamano “Storie Liberate”, perché ho cercato di liberarle dall’oblio in cui erano nascoste. Insieme ai dischi usciranno anche due volumi che racconteranno la ricerca e l’antefatto che ha preceduto la creazione dei brani che in tutto sono 17. Dell’edizione si curerà La Nuova Sardegna.

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