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Tigellio, il poeta sardo amico di Giulio Cesare che scatenava le ire di Cicerone e Orazio

«Un uomo più pestilenziale della sua terra». È con queste parole che l’oratore romano Cicerone descriveva Tigellio, musico e poeta sardo, intimo amico di Giulio Cesare, vissuto nel I secolo a. C. La maggior parte dei cagliaritani conosceranno bene la Villa di Tigellio, un complesso abitativo romano rinvenuto nell’Ottocento nel quartiere di Stampace. In realtà quei resti archeologici sono stati erroneamente associati al poeta, sulla base di antichi documenti che si sono poi rivelati falsi. A darci informazioni su Tigellio (anche se in termini tutt’altro che lusinghieri) contribuiscono però gli antichi letterati Cicerone e Orazio, che ne dipingono un ritratto decisamente curioso.

La villa di Tigellio a Cagliari

Che Cicerone non avesse una grande opinione dei sardi è cosa nota: «ladroni con la mastruca» amava definirli (la mastruca era un giaccone di pelli di pecora o capra tipico dei pastori), prepotenti, inclini alla menzogna e pure un po’ ignoranti, incapaci com’erano di parlare un corretto latino. Ma per Tigellio, da lui considerato solo “un pezzente che si atteggia da signore” pareva avere un’antipatia anche più spiccata. Non solo l’artista aveva la colpa di essere grande amico del suo acerrimo rivale Giulio Cesare, ma a dividerli avevano contribuito anche alcune controversie legali, dal momento che Tigellio aveva citato in giudizio l’Arpinate.

Ma anche un altro collega di Tigellio, il poeta Orazio, non spendeva per lui parole di adulazione. Probabilmente i sardi, già al tempo dei romani, avevano fama di essere dei gran testardi, visto che Orazio descriveva Tigellio come un vero bastian contrario: «Se viene pregato di cantare, non canta, e neppure Cesare in persona può riuscire a smuoverlo. Ma quando invece inizia non la smette più». Inoltre, sempre secondo la testimonianza di Orazio, il poeta sardo doveva essere un artista decisamente eccentrico e incostante: vegliava di notte e russava di giorno; talvolta correva senza una ragione, come se avesse il nemico alle spalle, altre volte camminava lento e solenne come se partecipasse a una sacra cerimonia. Amava il lusso più sfrenato ma, poiché era un gran spendaccione, capitava che si trovasse spesso al verde; eppure non doveva essere un problema per lui, che dichiarava di potersi accontentare anche di poco per vivere: «un cucchiaio di sale fino e una veste, anche se rozza».

Aveva però fama di essere un uomo generoso, questo Tigellio. Forse anche troppo, visto che il suo corte funebre ci viene descritto da Orazio come uno spettacolo a metà tra il malinconico e il ridicolo. Ad accompagnare il suo feretro non mancarono tutti i personaggi di dubbia morale che avevano beneficiato dei suoi aiuti in vita: ciarlatani e truffatori, accattoni, prostitute e mimi. Un altro grande merito però, secondo alcuni studiosi, spetta al musico sardo: non solo aveva animato, con la sua personalità istrionica la corte dei Cesari, ma non è improbabile che avesse fatto conoscere a Roma il canto a tenore tipico della sua terra. Anche se nessuna delle sue composizioni è arrivata fino a noi, sappiamo che la maggior parte dei suoi canti erano dedicati a Bacco e non è da escludere che, nell’intonarli, Tigellio facesse ricorso alle tecniche vocali sarde e usasse come accompagnamento delle launeddas.

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