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Lo sapevate? Gli assassini di Giulio Cesare ebbero vita brevissima

Lo sapevate? Gli assassini di Giulio Cesare ebbero vita brevissima.

 

Gaio Giulio Cesare è stato un militare, politico, console, dittatore, pontefice massimo, oratore e scrittore romano, considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia. Pochi personaggi nel corso della storia hanno una fama paragonabile alla sua. Cesare condusse una vita fuori dall’ordinario. Fu un uomo buono e straordinariamente generoso con gli amici, un validissimo condottiero ed un militare instancabile. Si accompagnò sempre a donne splendide, amava il lusso e il cibo ma non il vino. Fu assassinato e chi lo uccise ebbe vita brevissima.

Discendente della gens Iulia, che pare discendesse da Julo, figlio di Enea e quindi nipote della dea Venere, ma legato anche alla plebe tramite sua zia, conquistò la Gallia, raggiunse Britannia e Germania, estendendo l’area di dominio romano fino all’Oceano Atlantico e al Reno.

 

Ebbe un ruolo fondamentale nella transizione del sistema di governo dalla forma repubblicana a quella imperiale. Fu dittatore (dictator) di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica decennale e dal 44 a.C. come dittatore perpetuo, e per questo ritenuto da Svetonio il primo dei dodici Cesari, in seguito sinonimo di imperatore romano. Con la conquista della Gallia estese il dominio della res publica romana fino all’oceano Atlantico e al Reno; portò gli eserciti romani a invadere per la prima volta la Britannia e la Germania e a combattere in Spagna, Grecia, Egitto, Ponto e Africa.

Cesaricidio viene definito l’assassinio di Cesare, avvenuto il 15 marzo del 44 a.C. (le Idi di marzo), a opera di un gruppo di circa venti senatori che si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell’ordinamento repubblicani e che, per loro cultura e formazione, erano contrari a ogni forma di potere personale. Temendo che Cesare volesse farsi re di Roma, un numero variabile di circa 60 o 80 senatori, guidati da «Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto» congiurarono per uccidere il dittatore. Tra essi, oltre ai Pompeiani e ai repubblicani, vi erano alcuni sostenitori di Cesare che furono spinti a compiere questo assassinio prevalentemente da motivi personali: per rancore, invidia e delusioni per mancati riconoscimenti e compensi.

Le Idi di marzo (latino: Idus Martiae) erano un giorno festivo dedicato al dio della guerra, Marte. Il termine idi si riferiva al 15º giorno dei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, e al 13º giorno degli altri mesi. La seduta in Senato del 15 marzo era forse l’ultima occasione propizia per l’eliminazione di Cesare che tre giorni dopo sarebbe dovuto partire per una campagna contro i Geti e i Parti e non a caso gli amici di Cesare avevano diffuso una presunta profezia dei Libri Sibillini nella quale si affermava che i Parti sarebbero stati sconfitti da un re. Il 15 marzo era poi il giorno giusto per l’assassinio di Cesare perché era prevista una festa in onore di Anna Perenna, l’antica dea romana che presiedeva al perpetuo rinnovarsi dell’anno, da svolgere nel Teatro di Pompeo e Decimo Bruto aveva stanziato nella Curia di Pompeo, sede dell’assemblea dei senatori, un certo numero di gladiatori con il pretesto dichiarato dell’organizzazione degli spettacoli.

Spesso l’espressione idi di marzo viene utilizzata per indicare una data cruciale proprio come quella dell’assassinio di Giulio Cesare.

Così Svetonio descrive poi l’assassinio di Cesare:

Lucio Tillio Cimbro (al centro) mostra la petizione e tira la tunica di Cesare, mentre uno dei due fratelli Casca si prepara a pugnalarlo da dietro. Dipinto di Karl Theodor von Piloty.
«Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.

Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.

Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.

I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido.

La morte avvenne Roma nell’odierna Area Sacra di Torre Argentina. Tra il teatro Argentina e il tempio circolare (Tempio della Fortuna) sorgeva anticamente la Curia di Pompeo, luogo della morte di Cesare avvenuta, secondo la tradizione, ai piedi della statua di Pompeo lì eretta. Tra tutti i congiurati coinvolti nell’assassinio ordito da Bruto e Cassio, nessuno visse più di tre anni dopo la morte di Cesare e nessuno morì di morte naturale. Si narra infatti che alcuni morirono in mare o in battaglia e qualcuno si suicidò con lo stesso pugnale con cui era stato colpito Cesare stesso.

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