roma.vistanet.it

Lo sapevate? Per formare la collina del Testaccio ci sono volute 50 milioni di anfore: perché furono buttate?

Lo sapevate? Per formare la collina del Testaccio ci sono volute 50 milioni di anfore: perché furono buttate?

 

 

 

Il quartiere si sviluppa intorno al Monte dei Cocci, una collina artificiale nata dall’accumulo di anfore romane scartate. I cocci venivano disposti ordinatamente in vari strati; se vi trovate sulla collina, sappiate che sotto i vostri piedi ci sono i resti di più di cinquanta milioni di anfore che contenevano olio e altre derrate. La collina ha un perimetro di circa un chilometro ed è alta circa 50 metri. Perché furono buttate queste anfore?

 

 

Il Monte Testaccio (Mons Testaceus, in latino) è quindi una collina artificiale formata dai cocci (testae, in latino) e detriti vari, accumulatisi nei secoli come residuo dei trasporti che facevano capo al vicino porto di Ripa grande (Emporium). La collina sui cui si adagia il quartiere è formata dai frammenti delle anfore scartate dal vicino porto che si trovava sul fiume Tevere, in età imperiale.

Il Monte Testaccio ha un perimetro di 700 metri circa, un’altezza massima di 45 metri ed una superficie di circa 22.000 metri quadrati, con milioni di cocci di anfore accatastati. La zona veniva quindi utilizzata come una vera e propria discarica per lo smaltimento delle anfore. Dopo il viaggio in mare, sulle antiche navi romane, le anfore arrivavano al porto di Fiumicino e attraverso il Tevere giungevano fino al porto di Ripa Grande, nei pressi del ponte Sublicio.

 

I contenitori di terracotta poi venivano accatastati nell’area compresa tra la riva sinistra del Tevere e le mura aureliane, e nel tempo hanno formato il Monte dei Cocci. Ma perché le anfore venivano abbandonate?

 

 

Testaccio è uno dei cuori pulsanti della Capitale. Un famoso quartiere alla moda della Capitale, laboratorio di sviluppo urbano, all’avanguardia nella produzione culturale di Roma e centro della movida. Le grotte adibite anticamente a magazzini ospitano infatti bar e locali notturni affollati e trattorie tradizionali ma anche innovative.

Il porto dell’Emporio funzionava fin dall’epoca romana, ed era il punto d’approdo delle merci e delle materie prime (marmi, grano, vino) che, arrivate via mare dal porto di Ostia, risalivano il Tevere su chiatte rimorchiate dai bufali che nel 1842 vennero sostituiti con rimorchi a vapore.

Nei secoli i cocci delle anfore, che servivano a contenere grano e alimenti liquidi durante il trasporto, si accumularono a montagnola: da qui il nome – antico – di monte Testaccio o Monte dei cocci, e la scelta – moderna – dell’anfora come simbolo del rione. Il numero delle anfore accatastate si stima attorno ai 50 milioni. Le anfore vuote che avevano contenuto soprattutto olio venivano rotte in cocci poi disposti ordinatamente per dare stabilità in piramide a gradoni e cosparsi di calce per evitare gli odori dovuti alla decomposizione dei residui organici.

Perché insieme alle anfore rotte venivano buttate soprattutto le anfore olearie? La risposta, riporta Romehints, è data dalle anfore da olio (o da quelle più generiche spaccate) che non potevano essere riutilizzate. Infatti la parte interna di ciascun contenitore veniva irrimediabilmente rovinata dall’olio, che rendeva le anfore inadatte al trasporto di qualunque altro prodotto alimentare.
Le regole igieniche a cui i romani sottoponevano i cibi erano particolarmente severe. L’obiettivo era scongiurare la proliferazione di patologie legate alla cattiva conservazione degli alimenti.
Grazie a queste norme oggi avete la possibilità di percorrere i viali della collina, alla scoperta di tracce di un passato ricco di storia, tuttora visibili a chiunque scelga di fare una passeggiata da queste parti.
Si tratta infatti di un periodo significativo in quanto il Monte dei Cocci si è formato e consolidato nel momento di crisi dell’Impero romano. Le importazioni di olio dalla Spagna e dall’Africa subirono infatti una riduzione, motivo per cui il monte si fermò all’altezza attuale, verso il III secolo dopo Cristo.

Gli archeologi sono riusciti a datare con precisione i reperti: i romani iniziarono ad accumulare i detriti intorno al 140, fino alla metà del III secolo dopo Cristo. Le anfore che furono gettate nella discarica erano olearie, e provenivano dall’Andalusia. Per la maggior parte erano infatti contenitori che arrivavano dalla Betica, una provincia di Roma nel sud della Spagna; solo un quarto delle anfore giungeva dall’Africa occidentale.

Ma come si è compattata questa montagna di cocci? Ci si potrebbe domandare per quale motivo non è mai franata su se stessa. È stata la calce presente sui cocci a favorire questo fenomeno. La calce infatti veniva utilizzata per scongiurare la decomposizione dell’olio. Allo stesso tempo ha cementato i frammenti tra loro, rendendo il monte una collina stabile.

Man mano che la discarica cresceva in altezza, si poneva il problema di come raggiungere la sommità per accatastare altro materiale. I romani, che erano grandi architetti e ingegneri, costruirono una rampa e due vie che consentivano ai carri, carichi di anfore e cocci, di arrivare in cima.
È proprio sui resti delle anfore spaccate che sono state rinvenute le informazioni che hanno permesso di datare il periodo in cui si è formato il monte e di sapere da dove arrivavano le mercanzie. Sulla maggior parte di esse c’era il marchio di fabbrica; altre avevano impressi i tituli picti, ossia delle informazioni tracciate con un pennello che si riferivano all’identità del commerciante che esportava la mercanzia, al contenuto delle anfore, ai controlli a cui era stato sottoposto il carico.
In seguito il Monte dei Cocci è diventato un luogo che ha ospitato scenari completamente diversi. La sua memoria è legata al Ludus Testaccie: si trattava di una celebrazione sul genere del carnevale, le cui prime tracce risalgono al 1256, quando era papa Alessandro IV.
I giochi durarono fino al 1470 ed erano particolarmente crudeli: i partecipanti alla festa si divertivano a lanciare gli animali dal monte; venivano sacrificati maiali, cinghiali e tori che poi i lusores trafiggevano, per ucciderli e mangiarli. Era una gara molto combattuta per impossessarsi per primi della carne delle bestie.
Nel XVII secolo lo scenario cambiò totalmente. Nel 1670 infatti, due signori romani, Domenico Coppitelli e Pietro Ottini, acquistarono circa duecento canne di terra, per motivi commerciali. Crearono dei grottini dentro al monte, per adibirli a cantine e osterie.
La pratica prese piede e in tanti aprirono locande dove la gente poteva bere e mangiare. Oggi quei grottini ospitano ristoranti, anche molto eleganti, in cui è possibile assaggiare le specialità testaccine.
Nel corso del XX secolo, e precisamente durante il secondo conflitto mondiale, sul Monte dei Cocci venne allestita una batteria antiaerea dotata di cannoni, che in seguito fu smantellata. Passeggiando sulla collina potrete riconoscerne i resti ancora visibili.
Se arrivate fino alla cima del Monte dei Cocci vi imbatterete in una croce. Qui terminava la via Crucis che partita da un edificio ormai scomparso nei pressi della Bocca della Verità.

Adesso Testaccio è un quartiere verace, dall’anima popolare e conosciuto come il quartiere operaio della capitale.
Ultimamente è stato riscoperto anche per l’archeologia industriale ed è il quartiere che rappresenta al meglio l’unione tra le antiche tradizioni romane e le nuove tendenze.
Nonostante la continua evoluzione, infatti il Testaccio è riuscito sempre a mantenere inalterato il suo spirito genuino, semplice e familiare, simbolo di cultura e romanità per eccellenza.
Ultimamente viene scelto per importanti set cinematografici ed è diventato laboratorio di sviluppo urbano, all’avanguardia nella produzione culturale di Roma.

Exit mobile version