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Combatte la leucemia da bambina: Laura Matta realizza il suo sogno di diventare pedagogista

Si dice che l’unico modo per riuscire a vivere sereni sia non guardare troppo indietro al proprio passato o avere costantemente gli occhi puntati sul futuro, ma concentrarsi sul presente. Ma quando quel che è stato dona qualcosa di importante – seppur nei casi di esperienze negative –, riuscendo a far imparare lezioni umane fondamentali, va comunque custodito con cura.

Questa è la storia del coraggio di Laura Matta, 34enne originaria di Santu Lussurgiu ma cagliaritana d’adozione, pedagogista laureata alla Magistrale di Scienze Pedagogiche e dei Servizi Educativi all’Università di Cagliari ed ex paziente oncologica.

L’esperienza della malattia, risalente a trent’anni fa, le ha regalato diversi obiettivi di vita, tra cui quello di essere presenza attiva nell’arduo compito di sensibilizzazione sull’importanza, in ambito medico, dell’empatia. Proprio su questo argomento si sono basate infatti le sue due tesi di laurea, triennale e magistrale. Ma andiamo per gradi.

Ha solo quattro anni Laura quando viene ricoverata nel reparto di Pediatria dell’Ospedale Microcitemico per una sospetta leucemia. La sintomatologia, tra cui, in particolare, l’ingrossamento della milza, lancia campanelli d’allarme – ahimè – corretti. «Il mio ricordo di quei pochi giorni (o forse uno solo) è abbastanza traumatico. Mi era stato fatto l’aspirato del midollo, con tante persone che mi tenevano gambe e braccia, distesa prona in un lettino, per poi avere la conferma di quel sospetto: leucemia linfoblastica acuta. Poi il trasferimento nel reparto di Oncoematologia pediatrica.»

Tanto il calore che riceve dal personale sanitario: «Di norma, questi reparti sono visti da tutti come sinonimo di tristezza, morte e paura (purtroppo presenti, come sappiamo), ma c’è un mondo che va oltre tutto ciò, un mondo fatto di affetti, abbracci, sorrisi e risate, quelli che medici e infermieri dell’allora quinto piano non mi hanno mai fatto mancare.»

Anche la scuola non le manca più di tanto: «La mia era un’altra, era in ospedale: i giochi c’erano, i bambini pure. Ogni giorno imparavo cose nuove: potevo disegnare, colorare e avevo a disposizione una scelta di giochi e tanti amici con cui giocare, anche grazie alla presenza dei volontari dell’associazione ABOS.»

Il reparto, racconta la 34enne, diventa la tua casa, la tua famiglia. In ospedale tutto il personale sanitario diventa un nido di amici: «Sapevo di potermi fidare di loro, di potermi confidare» aggiunge.

Del resto, trattano i bambini con cura, con grande rispetto e cercano di essere chiari sempre ma anche dolci: «Mi è stato sempre spiegato che punture e medicine servivano per farmi guarire dalla brutta malattia e uccidere le cellule cattive nel mio corpo. Il tutto con sincerità, parole ed esempi semplici e comprensibili per una bambina di quattro anni in un mondo tutto nuovo che faceva paura.»

Pochi i ricordi dell’allora bimba di quattro anni Laura Matta, ma uno in particolare è ancora impresso nella sua testa: la lombare. «Il dolore non è paragonabile a nessun altro. Ma in quei momenti, data la posizione china che dovevo assumere, c’era qualcuno che mi doveva sostenere. Quell’abbraccio per me era tutto, nonostante fosse una posizione forzata affinché restassi immobile in quegli istanti per l’esecuzione dell’esame. Era sicurezza, protezione, fiducia e vicinanza. Quel contatto per me era significativo. Era un po’ come “stai tranquilla, ci sono io prendermi cura di te”. Un prima e un dopo. Prima come sicurezza iniziale, il fatto di non essere sola e abbandonata per affrontare quello stava per succedere. Dopo, un porto sicuro al quale aggrapparmi per dare sfogo al mio dolore.»

Non c’è dichiarazione più bella di quella che Laura dona al personale sanitario, che, testuali parole, sempre umano, empatico e professionale, le ha dato la possibilità di crescere e di godere della vita: «Loro sono il mio passato, il mio presente e il mio futuro. Sono la mia seconda famiglia, la più bella che potessi trovare.»

Laura Matta parla anche del difficile e lungo percorso di accettazione della malattia: durante l’adolescenza, vede la malattia come una vergogna, qualcosa da nascondere sotto il tappeto, di cui non parlare mai. Del resto, pensare a quel periodo la fa stare male, quindi perché non tentare di dimenticare tutto? Seppellire quei ricordi negativi in un angolo del suo cuore, chiudere a chiave e non aprire mai. «Ma qualcosa del genere non si può dimenticare, le cicatrici parlano e ogni tanto qualche ricordo bussa alla tua porta.»

«La malattia era una parte della mia vita, non si poteva cancellare, mi aveva cambiata, così era arrivato per me il momento di parlarne. Non è stato un percorso semplice, ma ho trovato chi ha saputo darmi il giusto sostegno per liberarmi da quel peso enorme che portavo dentro di me da troppo tempo. Ho lavorato tanto su me stessa, poi sono entrati in gioco altri fattori ed occasioni.»

Ad aiutarla tanto, l’aver ripreso contatti con medici e infermieri dell’epoca ma, soprattutto, il parlare con chi aveva avuto la sua stessa esperienza: «Il confronto ci ha fatto capire che, nonostante abbiamo sofferto tanto, ora possiamo apprezzare la bellezza della vita, possiamo capire quanto siamo stati fortunati e quanto la malattia ci abbia reso nel tempo forti anche nell’affrontare le sfide della vita. Anche se non siamo stati in cura nello stesso periodo, anche se abbiamo età diverse, ci sentiamo parte di un “noi”: tutti abbiamo vissuto sulla nostra pelle il dolore, le punture, la testa rasata, le flebo, le punture lombari da svegli. Tutti sappiamo che cosa si prova. Ci sentiamo fratelli e sorelle, anche se capita di conoscerci a distanza di anni. È come se fossimo legati da un filo indistruttibile, quasi un legame fraterno e di sangue che va oltre le distanze e il tempo.»

A maggio 2011, poi, la pedagogista realizza un suo primo sogno che cambierà poi anche la sua vita: diventa volontaria dell’ABOS nei reparti di Neuropsichiatria Infantile e Pediatria all’ex Macciotta, aiuta i bambini – proprio come all’epoca della malattia i volontari diedero sostegno a lei – e vede le cose da un’altra prospettiva. «Io che in quegli anni ho sofferto tanto, quando ho scoperto di non poter donare il sangue, mi sono poi ritrovata a pensare che c’erano tanti altri modi per sdebitarmi… e l’ho fatto donando il mio tempo, il mio amore, i miei sorrisi, indossando ogni settimana quel camice verde che per me aveva un significato troppo importante. Ho dato tanto ma ho ricevuto molto di più. Ho conosciuto tanti bambini meravigliosi che mi hanno regalato tante emozioni, che mi aspettavano e mi chiedevano di tornare anche il giorno dopo a giocare con loro. Quella stessa attesa e gioia che avevo vissuto io da piccola mentre aspettavo i miei adorati volontari. E poi le mie adorate colleghe, con cui ho condiviso tanti bei momenti e alcune delle quali sono ora delle amiche importanti.»

Quelle giornate la arricchiscono tanto da farle cambiare il percorso di studi verso qualcosa che fosse più vicino al suo passato, a quello che aveva vissuto.

«Alla fine, sono entrata in ambito pedagogico, quella era la mia strada: sarei diventata comunque una figura d’aiuto e di cura per gli altri, bambini in particolare.»

Ma arriviamo alla conclusione del suo percorso universitario e alla medicina narrativa.

«A conclusione del mio percorso di studi, ho voluto dimostrare in qualche modo la gratitudine per le cure ricevute, non solo in termini di terapia. L’ho fatto con una tesi dal titolo “La relazione tra il pediatra e il paziente oncologico. Tra empatia e medicina narrativa”, seguita in questo lavoro dalla Prof.ssa Gabriella Baptist e dalla Dott.ssa Giovanna Frongia. Ho portato avanti un discorso avviato già dalla triennale con la Prof.ssa Alessandra Busonera, con una tesi su “L’amicizia come parte della cura e dello sviluppo socioemotivo nei reparti di Oncoematologia Pediatrica”.»

La 34enne ama scrivere, fare ricerca, tradurre e sente di dover fare qualcosa che la appartenga, da svolgere con passione e amore: «L’oggetto del mio lavoro di tesi è la relazione tra il pediatra e il paziente oncologico, affrontata dal punto di vista etico e morale.»

I medici non devono essere solo “tecnici della salute”, ma c’è la necessità che siano empatici con i pazienti e non è giusto che l’emotività vada tenuta nascosta. «Lo scopo del mio lavoro è descrivere come sia vissuta la relazione tra medico e paziente, in modo tale da offrire una migliore conoscenza dell’argomento e perché possa svilupparsi una maggiore umanizzazione delle cure. Nello specifico ho analizzato il contesto dell’oncoematologia pediatrica. Nonostante il progresso straordinario in merito alla diagnosi e alla cura delle malattie, spesso viene meno l’attitudine umana nel provare empatia verso i pazienti, come pure un accompagnamento verso la guarigione.»

Una lamentela frequente dei pazienti? Non ci si sente ascoltati dai medici spesso considerati insensibili. «Ma l’ammalato ha necessità di comprensione e di essere accompagnato nel suo percorso di cura. In particolare, nel caso dei bambini, che spesso trascorrono lunghi periodi di tempo all’interno dei reparti di oncoematologia, talvolta dall’infanzia fino all’adolescenza. La famiglia e gli amici esterni sono sempre presenti, ma il rapporto che si viene a creare all’interno dei reparti è un qualcosa che va oltre. Questi pazienti hanno, quindi, la necessità di presenze, in particolare mediche, con cui instaurare una comunicazione, creare un rapporto di fiducia e coltivare una relazione al fine di realizzare un’alleanza terapeutica che possa essere il migliore possibile anche al fine di garantire il successo delle cure. Dal punto di vista della formazione, si sta svolgendo un duro lavoro affinché si curi con maggiore empatia, fiducia e sensibilità.»

Conclude la tesi con una messa in pratica della medicina narrativa.

«Ho voluto dare spazio e voce alle testimonianze più vive dei principali protagonisti.»

Contatta e coinvolge ex pazienti, genitori e medici del reparto di Oncoematologia pediatrica del Microcitemico di Cagliari

«La raccolta delle testimonianze è avvenuta in alcuni casi mediante interviste dirette, in altri casi, date le numerose e inaspettate risposte di adesione e partecipazione, ho deciso di fornire una scaletta per l’elaborazione di testimonianze scritte. Inizialmente volevo farmi da parte, ma mi è sembrato giusto e doveroso condividere anche la mia esperienza, la mia storia di malattia. Io che so bene quanto sia fondamentale la relazione con i pediatri, avendo avuto molte occasioni in cui vedere all’opera le indicazioni della medicina narrativa, dovevo solo mettere nero su bianco e dare voce ai miei pensieri e ai miei ricordi.»

La fonte d’ispirazione per questa tesi arriva dai suoi medici di allora, in particolare dal dottor Giulio Murgia: «Tra i suoi numerosi insegnamenti, mi ha sempre detto: “Vivi, vivete una vita piena anche per i vostri compagni che non ce l’hanno fatta”.»

«Per me è un punto di riferimento fondamentale, una presenza e una certezza che mi accompagna da sempre» spiega la 34enne. «Il nostro rapporto si è fortificato nel tempo, fatto di quella fiducia e quella complicità che da sempre ci uniscono: è un prenderci per mano che continua da quel primo giorno di accoglienza, da trent’anni. È il mio secondo padre, il mio mentore, il mio maestro, per i suoi insegnamenti non solo di vita. Il suo è sempre stato un atteggiamento accogliente, attento e pronto all’ascolto (che non sono aspetti scontati in un medico). Con i suoi gesti d’affetto immutato, è l’unica persona che più mi ricorda e si avvicina a mio padre e per questo ne ho estremamente bisogno. Come i nostri abbracci lunghi e stretti, i suoi sorrisi accompagnati dal suo “bambina mia”, che anche a trent’anni fa bene al cuore sentirselo dire. In tutto ciò, rimane pur sempre il mio medico di fiducia: ora, nonostante sia adulta, se ho esigenze mediche, dubbi, paure, sento ancora il bisogno di cercarlo per ricevere da lui quell’amore, quel conforto, quella sicurezza, quella protezione e soprattutto quella sincerità, come quando ero bambina.»

Un rapporto così bello e autentico che Laura lo vuole lì, il giorno della sua laurea, e poco importa se le disposizioni Covid sono chiare: tra le pochissime persone presenti c’è quello che è il suo mentore, il suo secondo padre. «Ho voluto che il mio Doc fosse presente in un giorno per me così importante per poi chiedergli di incoronarmi. È stata un’emozione unica.»

«Ora a distanza di anni mi sento cambiata, come se fossi un’altra persona. Ne parlo con più serenità, ovviamente selezionando le persone con cui condividere la mia esperienza. Ho iniziato a vedere il mio passato di malattia come un punto di forza, ho fatto sì che diventasse per me un motivo per affrontare le situazioni difficili.»

L’ha arricchita, quel periodo così nero, ora se ne rende conto pienamente.

«Ho imparato ad essere resiliente, ad essere paziente nel saper godere, ad aspettare e apprezzare la bellezza della vita, ma allo stesso tempo ad essere forte di fronte ai numerosi ostacoli che la vita mi ha posto davanti. Ho imparato ad ascoltare gli altri e ad avvicinarmi a loro con premura e delicatezza, nel rispetto di tempi e spazi, perché in fondo è quello che mi aspetto anche io dagli altri» chiude. «Il mio augurio per gli ex pazienti è di trovare quel qualcuno (o più di uno) con cui narrarsi e liberarsi da quelle paure, da quei ricordi e recuperare quella serenità perduta. Spero un domani, quel qualcuno di poter essere anche io in qualità di Pedagogista ma soprattutto da ex paziente.»

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