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Misoginia e gogna mediatica. L’ambasciatrice culturale italo-marocchina Ilham Mounssif sulla liberazione di Silvia Romano

llham Mounssif Ogliastra Marocco

 

Non si parla d’altro negli ultimi giorni, se non del ritorno in Italia della cooperante italiana Silvia Romano. La sua conversione all’islam durante il periodo di prigionia di cui è stata vittima per 18 lunghi mesi, in particolare, ha innescato tra gli italiani infinite polemiche e il solito scatenarsi dei leoni da tastiera sui social.

Silvia Romano, è bene ricordarlo, è stata nelle mani di uno dei gruppi terroristici islamisti più spietati, che da oltre un decennio lacera l’Africa orientale e che è affiliato alla terribile (seppur oggi depotenziata) Al Qaeda. Un gruppo temibile, aderente all’ala ultra conservatrice dell’Islam wahabbita, che ha lo scopo di rovesciare il governo federale della Somalia e instaurare la sharia – legge islamica – con l’uso del terrore, perseguitando minoranze e oppositori.

Ne parliamo con l’ambasciatrice culturale ogliastrino-marocchina Ilham Mounssif, che nel suo percorso di vita e di studi ha spesso fatto i conti con la percezione – spesso distorta – che l’Occidente ha del mondo islamico e che ha analizzato il caso della liberazione di Silvia Romano sotto vari aspetti.

 

La conversione di Silvia Romano. «Non intendo entrare nel merito della sua conversione religiosa – spiega Ihlam – perché lo ritengo un atto personale, intimo, che ha avuto luogo in uno stato di coercizione e non sappiamo, quindi, da cosa sia stato realmente dettato. Silvia e la sua famiglia avranno bisogno di tempo per metabolizzare la complessa vicenda che ha sconvolto le loro vite per 18 lunghi mesi.  Le conversioni non sono inusuali in condizioni di prigionia, e questo la dice lunga sui meccanismi psicologici che innescano certe scelte. Ma se ci pensiamo, tutto ciò che riguarda la fede, abbracciare genuinamente la propria o cambiarla o addirittura smettere di credere, è condizionato da fattori esterni e circostanze di vita, specie nei momenti più difficili, in cui si riaccende forte la spiritualità o a seguito di traumi tali da volerla lasciare alle spalle. Ripeto: è una questione intima e non dovrebbe essere sindacata, riducendola come al solito a squallide tifoserie da social»

Un caso dato in pasto ai media. «Sarebbe meritevole di silenzio ma è stata data in pasto all’opinione pubblica in maniera scriteriata, senza filtri. La sua liberazione è stata altamente mediatizzata, con una passerella politica  che ha visto i vertici del governo accogliere la cooperante liberata in diretta, fin dal suo primo passo in aereoporto – fa notare Ilham Mounssif – Non ci pare di ricordare tale attenzione mediatica in  vicende analoghe di prigionieri italiani in paesi terzi, ma anche andando a ritroso nel tempo, negli anni di piombo, mai avremmo assistito ad una spettacolarizzazione della liberazione di un prigioniero delle BR o altra sigla del terrore da parte del Governo. Come giusto che sia, considerata la delicatezza della questione. Ma siamo in altri tempi e forse oggi più che mai occorreva un diversivo, un’arma di distrazione di massa in settimane cruciali per la nostra Italia messa in ginocchio dalla crisi sanitaria».

I precedenti e la misoginia italiana. «Possiamo fare un parallelo, a questo proposito, con il comportamento che media e opinione pubblica hanno tenuto rispetto ad altre liberazioni di italiani in mano a terroristi in Africa. Il più recente riguarda Luca Tacchetti, turista rapito in Mali insieme alla fidanzata. Il suo arrivo è stato molto più sobrio, tanto da esser passato quasi in sordina. Si nota come la stigmatizzazione del suo aspetto fisico (la barba folta in primis, comunemente adottata dai praticanti musulmani) non sia stata la medesima. Neanche una parola, poi, sulla sua conversione. Sarà dunque il fatto di essere donna ad aver catalizzato tanto odio, nel caso di Silvia Romano? Direi di sì. L’accanimento mediatico verso giovani donne, dotate di intelletto e coraggio, è mosso da misoginia ed è purtroppo un elemento che si presenta spesso nella narrazione giornalistica italiana. Basta pensare a Rakete, ma anche semplicemente alle donne in politica. È  un problema culturale enorme».

Aspetto fisico e abbigliamento nell’occhio del ciclone. «Questo accanimento si è manifestato soprattutto attraverso le critiche sull’aspetto fisico e sull’abbigliamento di Silvia. L’abito che indossava, peraltro, erroneamente è stato chiamato islamico. Vi svelo una cosa: la moda e gli abiti tipici differiscono nei vari paesi musulmani e sono influenzati da costumi e tradizione locale. Volendo essere precisi, poi, l’abaya indossata da Silvia è tipicamente somala ma date le influenze dai paesi del golfo (dove appunto è diffuso il suo uso) ha fatto irruzione negli armadi delle donne del paese. Volenti o nolenti, se pensiamo ai territori sotto controllo degli Al Shabaab. Molti hanno dunque criticato il suo arrivo in tale mise, ma mi domando quanto si possa essere insensibili per non capire che chiedere a una persona di cambiare l’abito con il quale ha vissuto in prigionia per tanto tempo, è come volerla far denudare. Quella abaya, secondo me, è il modo con cui si è sentita protetta e “rispettata” in mezzo agli uomini di quella cultura. È stato, diciamo, un mezzo con il quale autopreservarsi».

PH ANSA

La natura geopolitica della questione. «Ma le reazioni sulla liberazione di Silvia non si esauriscono nelle questioni di carattere religioso e sociale – prosegue l’ambasciatrice culturale – Ci sono importanti spunti di riflessione di natura geopolitica proprio sul Corno d’Africa, dove l’Italia ha perso rilevanza al punto che nella liberazione della Romano sono subentrati i servizi segreti turchi, la media potenza mediterranea che oramai ha instaurato un rapporto privilegiato col governo somalo stesso. La mediatizzazione della vicenda di Silvia è avvenuta anche in Turchia per l’appunto, presentata come una propria ‘vittoria’, passatemi il termine.

Qui introduco dunque il punto su cui lo stesso intervento turco è importante, ossia il prezzo che il governo italiano ha pagato per la liberazione di Silvia. E in questo caso non si tratta di mero compenso in denaro che, si c’è stato e secondo fonti somale sarebbe di oltre un milione di euro, ma il prezzo politico che potrebbe derivarne in relazione alla guerra libica, l’altro contesto in cui, la Turchia subentra all’Italia.

Il pagamento del riscatto. «Sul pagamento dei riscatti, acceso elemento di discussione, e la posizione che assume l’Italia di voler giustamente portare in salvo i propri cittadini, ci sarebbero delle considerazioni da fare. Certo anche qui, la questione si è fatta più accesa con Silvia, la cui immagine di “convertita” ha deluso e destato stupore. L’opinione pubblica, infatti, si arroga il diritto di stabilire quindi chi è meritevole o meno di o esser salvato a seconda della circostanza. Ma ancor più rilevante è come questa vicenda ci riporti al dilemma tra etica e morale e ragion di Stato. Per cui si, è sacrosanto riportare vivi i connazionali a casa, ma lo si fa al caro prezzo di foraggiare un’industria di sequestri che per quanto stia andando a scemare, continua a riempire le casse di gruppi violenti. E il prezzo è anche politico. Dal 2004 ad oggi sono oltre 80 i milioni di euro che l’Italia ha pagato per riscattare i propri connazionali, e questo meccanismo mette a rischio gli stessi italiani nel mondo, specialmente nelle aree di pericolo dove imperversa il terrorismo. In Italia il circuito rapimenti e riscatti dei terribili anni di piombo è stato superato con la scelta del blocco dei beni. Scelta dura e moralmente discutibile, ma che ha finalmente posto fine all’umiliazione dello Stato stesso.

La collettività deve “pagare” dunque per le scelte altrui? «Spesso ingenuità, idealismo o disincantata voglia di aiutare il prossimo ci espongono a rischi che spesso non immaginiamo. Siamo forse erroneamente convinti della bontà  del prossimo ovunque andiamo, ma spesso incappiamo in posti dove regnano forze del male che non guardano in faccia nessuno. Là fuori c’è un mondo spietato, ma non meno spietato – almeno a parole –  di quello che in queste ore da il peggio sui social e sui giornali, in una gara di indecenza dove c’è solo imbarazzo della scelta su a chi attribuire il podio».

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