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Letto per voi. “La colpa di Ines – Sa tribulia”: la violenza sulle donne e la balentia nel romanzo di Mirella Manca

Siamo nella Sardegna del passato, quella della metà – circa – del secolo scorso.

Ines è giovane e bella, avvezza ai lavori pesanti, con una vivacità invidiabile e una grande forza d’animo. A renderla infelice, però, è la condizione della sua casa natale: la mamma sforna bimbi a più non posso e tocca anche a lei tirarli su. Finché Dio li manda, li prendiamo: era questa, allora, la regola. I bimbi come benedizione del Signore. Non conta più i nasi a cui togliere il moccio e le bocche da sfamare. È stanca, Ines, e vorrebbe una famiglia tutta sua. Una tranquillità. Un uomo da amare e che la ami.

Sogna e ride tanto, immaginando un futuro roseo.

Ecco perché quando Boele le mostra il suo apprezzamento lei non può non innamorarsi di lui. Bello, sempre curato, audace: tutto quello che ha sempre sognato ha un volto, adesso.

Non si cura di quello che dicono gli altri. È irascibile, le spiegano tutti, e nemmeno sua madre riesce a calmare quella rabbia che gli sgorga dal petto. Il padre di Ines è chiaro, a tal proposito.

“«Dicono che abbia un cattivo carattere. Uno screanzato. Non ti posso dare il mio benestare nella maniera più assoluta, figlia mia stimata. Non voglio saperti maltrattata.» In effetti, anche altre persone glielo avevano a suo tempo sconsigliato. «Ti ridurrai a mal partito con quello lì.» «Tratta male persino sua madre.» «Vedi che quella donna sembra una scaglia di legna, consumata com’è dal livore che le procura quello sciagurato!».”

Lei non ci crede: l’uomo che sta imparando – ne è certa! – a conoscere è dolce, sempre attento a farla sentire speciale. Come quando le strappa un bacio. Come quando la incontra prima di andare all’orto. Come quando la guarda come se lei fosse l’unica donna sulla faccia della terra. L’hanno chiesta in sposa diversi uomini, persino il primogenito della famiglia Nonne desidera che Ines diventi sua moglie. Niente da fare, però: il cuore della ragazza è occupato.

“«Vorrei essere un’edera e mettere le radici su di te così che tu non mi possa mai debellare.» Una frase da cinematografo che, se l’avesse sentita in bocca a chicchessia, l’avrebbe fatta ridere a crepapelle. “Forse legge pure lui Jane Eyre come mia sorella!” Ormai assoggettata, aveva pensato che, seppure quella frase fosse stata copiata da chissà dove, in fondo l’aveva cercata per dedicarla a lei e quel pensiero le aveva procurato una serie di brividi lungo la schiena, lasciandoglielo immaginare romantico e istruito. “Da vicino è ancora più bello e vuole proprio me; davvero sogna me e nessun’altra.” Così si era detta quella sera.”

Il giorno del matrimonio è un sogno, per la bella Ines: una vita bellissima la attende. E la attende accanto al suo uomo, il suo amato Boele.

Ora – dopo anni e con una gravidanza che le pesa sui lombi e una nipote, Eliana, che le tiene compagnia smorzando un pochino, con la sua serenità, quel malessere che la coglie ogni minuto – Ines vede le cose in modo diverso. E il suo futuro, ahimè, non appare più luminoso: da tempo per quella ragazza ricca di desideri e con una gran voglia di essere felice è iniziata “Sa tribulia”.

L’autrice disegna con grande maestria una vicenda dolorosa, nella quale ogni donna che ha subito violenza si può riconoscere. Manca, con la sua scrittura ricercata e la sua vena narrativa a tratti poetica e a tratti amara più del fiele, è particolarmente brava a farci vedere quanto cupo possa essere un pozzo, dopo che ci si cade dentro.

Ines, pober’anima, non ha colpe – malgrado alla fine qualcuno la ritenga rea del suo funesto destino – se non quella di essersi fidata di un mostro, di un inetto, di un narcisista più legato al fiasco di vino che al suo onore stesso. Ma lei non sfugge mai al suo ruolo di moglie: gli sta accanto comunque. Malgrado sia sfaticato, indolente, distante e poco fedele. Malgrado le faccia regali solo ed esclusivamente per farsi perdonare di qualcosa di grave. Malgrado le abbia riservato una vita spenta e difficile. Gli sta accanto, appunto, e questa sua perseveranza la conduce in un tunnel, un tunnel vuoto e nero.

“Ines si ferma un attimo a riprendere fiato nell’ultima salita prima di arrivare al gregge. Respira a fondo, cercando di mandare giù il rospo assieme al fiato. Vorrebbe abbandonare i pensieri amari e la sensazione d’inadeguatezza che la sta vestendo da capo a piedi, in un tragitto che potrebbe percorrere a occhi chiusi. Per l’ennesima volta, quello sciagurato aveva portato il gregge la mattina presto, lasciandolo incustodito nel campo cintato da fitte siepi di corbezzolo e lentischio. «Tanto da lì non scappano.» Così aveva esclamato, non degnando Ines di uno sguardo, che se l’era visto davanti solamente dopo una mezz’’ora. Giusto il lasso di tempo tra l’andata e il ritorno dai prati. «Maledetto!»”

Cruda, ben scritta, reale: “La colpa di Ines” ti si aggrappa al cuore e non lo lascia: perché il male a volte ha l’aspetto confortante di un bell’uomo che ti promette le stelle.

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