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Identikit dello scrittore. La cagliaritana Claudia Zedda e il suo modo di raccontare la Sardegna

Claudia Zedda, scrittrice cagliaritana, è occupatissima a presentare il suo ultimo libro e molto bolle in pentola per il futuro. Lei scrive di Sardegna, di questa nostra bellissima Isola con la quale sente un legame indissolubile.

Mito e realtà che si mescolano tra loro, credenze che affiorano, bellezze che hanno bisogno di essere raccontate: fin dal suo primo lavoro, si occupata di questa terra dalle tradizioni ataviche alla quale i suoi abitanti si stringono come alla gonna di una mamma premurosa.

“Da grande volevo fare o la ballerina o la scrittrice, ma dato che la danza classica non fa per me, e io non faccio per quella moderna, ho ripiegato sulla mia seconda passione” si legge scritto sul suo sito.

Noi di Vistanet l’abbiamo intervistata.

Partiamo con una domanda che amo fare sempre agli scrittori. Quando ha capito che la scrittura sarebbe stata parte della sua vita? La Claudia Zedda bambina desiderava vivere di parole, di storie, di pause?

Ho sempre amato raccontare storie e prima ancora di imparare a scrivere inventavo vicende per ogni oggetto curioso che mi capitava fra le mani. Tutto ha una storia: una pietra, una scarpa, una persona, una foto, un albero. E quando quella storia viene raccontata l’oggetto riprende a brillare, ritrova vita, ritrova un senso. Qualcuno molto tempo fa mi disse che solo i fatti che vengono raccontati esistono per davvero, tutti gli altri si addormentano. Tutti gli altri vengono dimenticati. Ebbene, io racconto e lo faccio per istinto fin da bambina. Da adulta ho dato una spiegazione a questo istinto: non voglio che alcune vicende vengano dimenticate.        

 

La sua prima pubblicazione fu la sua tesi di laurea. Ci può spiegare?

Tutto più semplice di quel che si possa pensare: immediatamente dopo la laurea avevo il grande desiderio di lavorare nell’editoria. Come scrittrice certo, ma mi sarei accontentata anche di un altro ruolo. Contattai alcune case editrici proponendomi per diversi ruoli. La prima che mi rispose non era alla ricerca di alcun profilo retribuito, cercavano invece scrittori. Pensai che avrei potuto inviare la mia tesi: e la cosa funzionò piuttosto bene.

 

La Sardegna è sempre al centro delle sue storie. Come mai? È il fatto di sentirsi figlia della propria terra in modo forte, potente, o questa sua decisione ha altre radici?

Un mio caro maestro mi disse un giorno di raccontare della mia piccola casa: in questo modo avrei raccontato del mondo. Racconto della Sardegna per molti motivi: mi ha dato tanto e spero di poterle restituire il favore. Non sempre viene raccontata a dovere. La amo profondamente e voglio mostrarla così come io la vedo. Raccontando della Sardegna racconto del mondo perché uno è tutto e tutto è uno.

 

Nel 2014 arriva “L’Amuleto”, una storia che parte da una morte per arrivare alla conoscenza. C’è l’Isola, l’Isola alla quale noi sardi siamo legati. Ci sono i segreti di una famiglia. C’è una vecchia cassapanca che darà alla protagonista il modo di risolvere alcuni arcani. Può dirci qualcosa su questo libro?

Quel libro è una palestra. E lo è per almeno due motivi. Il primo è questo: fino a quel momento avevo scritto racconti, articoli giornalistici e saggi divulgativi. Mi domandavo se sarei stata in grado di scrivere un romanzo, impresa che allora (e alcune volte anche oggi), mi pareva titanica. Ebbene ci sono riuscita e nel mentre mi sono pure divertita.

L’Amuleto è stato una palestra anche in un altro senso: dopo aver a lungo approfondito le tematiche tradizionali volevo capire se realmente le figure a lungo analizzate potessero vivere in un contesto quotidiano moderno: ce l’hanno fatta e con grande intraprendenza a mio parere.

I piccoli e grandi misteri custoditi all’interno dell’antica cassapanca e della preziosa punga che la protagonista erediterà, li lascio svelare ai lettori che avranno la voglia di cimentarsi nella lettura del libro.

 

Nel 2017 esce invece “Rebecca e le Janas”. Lo ritiene un libro “magico, incantato, da leggere in famiglia, davanti al camino, accanto al sole che tramonta o alla luna che sorge. È un libro da leggere a scuola, con la maestra al centro e i ragazzi attorno. È un libro da leggere in cucina, con la testa persa fra i sogni e il forno acceso. È un libro per riscoprire l’Isola dei miracoli nella quale abbiamo avuto la fortuna di nascere. Per i ragazzi che leggeranno Rebecca e le Janas: le ricette sono tutte fatate, da provare con la mamma, il papà o i nonni. Per gli adulti che leggeranno questo libro: non smettete mai di guardare il mondo con gli occhi del bambino che siete stati”. Ci può spiegare la genesi di questo testo e cosa rappresenta per lei?

Rebecca e le janas è stato un dono: da parte mia per mia figlia. Un dono che avrei voluto ricevere anche io da bambina. È stato bello raccontare alcune delle storie che stanno più a cuore a mia figlia: è stato un ottimo esercizio. Hai la consapevolezza d’aver proprietà degli argomenti che maneggi solo quando riesci a spiegarli ai più piccoli. Loro sono poco interessati ai fronzoli: vogliono storie magiche ma credibili, sono esigenti, sono assettati, curiosi, sono fantastici. Rebecca e le janas è stato un dono per mia figlia, ma soprattutto per me. Mi ha dato modo di rispolverare l’uso dei miei occhi della fantasia. E la Dea sa se ogni adulto ne avrebbe bisogno.

 

Ultima delle sue pubblicazioni, “Janàsa”. La Sardegna nuragica che si incastra con quella della Seconda Guerra Mondiale. Nella prima, sette donne che vengono considerate maghe, sacerdotesse, guaritrici, veggenti, donne a metà strada fra l’umano e il divino, creando nel tempo il mito di quelle che ancora oggi sull’Isola sono chiamate Janas. Nella seconda, due donne che vivono a Cagliari e si immedesimano nel racconto. Come è nato questo libro? Ci sono state delle difficoltà nella stesura legate all’andare così tanto indietro nel tempo?

Questo libro è stato figlio di 12 anni di studi della Sardegna. Le difficoltà ci sono state, ma non per la necessità di tornare tanto indietro nel tempo. La difficoltà è stata rappresentata dal forte legame che sento con i luoghi e con le vicende narrate. Tutte le località usate sono reali, esattamente come reali sono le vicende di Annita e di Piera, l’una mia bisnonna, l’altra mia nonna. All’interno del libro vivono molte delle donne che mi hanno dato vita, che mi sono state madri. La difficoltà nella stesura è stata rappresentata da questo: regalare a queste donne il posto che meritano nella storia.

 

Sempre per “Janàsa”: a distanza di qualche anno dalla sua uscita fa ancora parlare di sé. Cosa prova, quando ne stringe una copia tra le mani?

La necessità impellente di scrivere il seguito.

 

In che modo la sua scrittura è cambiata dal primo lavoro all’ultimo?

La scrittura è come il carattere, come la pelle, come le opinioni: riflette le vicende che viviamo e affrontiamo quotidianamente. La mia è cresciuta, invecchia, si fa più semplice a tratti, saggia a momenti. Il suo obiettivo non è mai cambiato: comunicare, raccontare, ricordare.

 

Cosa bolle in pentola? Ci può dare qualche anticipazione sulle sue prossime pubblicazioni?

È in uscita il seguito di Rebecca e le janas, sto lavorando ad un nuovo saggio, e come accennato sto lavorando anche al seguito di Janàsa.

 

Può regalare una citazione di uno dei suoi testi ai lettori di Vistanet?

“E mentre avida inseguivo la risposta che dissetasse la mia curiosità, ho riposato con i giganti, ho ballato con le janas, ho bevuto dalle fonti sacre con Luxia, ho passeggiato per i vicoli dei paesi che ora sono città in compagnia de s’erchitu, ho osservato da lontano cosa significa essere panas, volato con le cogas e le sorelle surbiles, e mi sono lasciata intimorire dai danzatori infernali che abitano le chiesette di paese a notte fonda. L’amutadore mi ha svegliata a notte tarda e le creature ctonie mi hanno ospitato presso le loro dimore mostrandomi quali tesori nascondano. Mi hanno insegnato che essere sardi significa essere imprigionati in una rocca i cui muri sono d’acqua e sale, ma dai quali ditemi, chi desidera fuggire?”

 

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