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La storia di una dodicenne ogliastrina vittima di bullismo: “Per colpa di una chat ho smesso di essere felice”

«Sono una ragazza, ho 18 anni, vivo in Ogliastra e odio la mia terra. Penso sia l’affermazione più triste che si possa fare. Ma è così. Il posto in cui sono cresciuta non mi appartiene, e io non appartengo alle persone dalle quali è popolato».

Non utilizza mezzi termini A.. Si presenta inizialmente senza filtri, pronta ad argomentare su un tema, quello del bullismo, che vuole affrontare perché il silenzio dilania l’animo. Ma, alla fine, sceglie l’anonimato.

Quello intorno al bullismo è un dibattito vivissimo da anni: pubblicità progresso, campagne di sensibilizzazione, assemblee di istituto, associazioni e eventi da anni si occupano di un tema che purtroppo resta però sempre saldamente ancorato nella nostra società. Un problema che miete sempre più vittime: come A., martire oppressa che ha “smesso di essere felice”. La sua storia, inizia con un errore commesso all’età di soli 12 anni. E che le ha messo un intero paese contro.

«Ma un paese intero che vuoi che sia a confronto dei tuoi amici che ti voltano le spalle – spiega A. – delle tue più care insegnanti che se ne fregano, di una Preside stimata che se ne lava completamente le mani. L’importante, in questi paesi, è mantenere l’apparenza. Un’immagine del tutto falsa e ipocrita, certo, ma quello che conta è che sia positiva agli occhi delle altre persone. Avevo 12 anni quando sono diventata la p*ttana del paese. Avevo 12 anni quando la mia vita è andata a rotoli, perché volevo essere grande».

A. inizia a frequentare persone più grandi di lei, all’epoca ritenuti “amici”, in particolare inizia una relazione con un ragazzo di 15 anni. «Il fatidico 15 marzo 2012, il mio mondo è andato in pezzi. Voci, pettegolezzi, chiacchiere a sfondo sessuale che riguardavano proprio me. In poche ore tutto quello che avevo non c’era più, mi rimaneva solo lo sguardo dei miei genitori, profondamente deluso dallo scandalo che riguardava proprio la loro figlia. Mi rimanevano le risate degli uomini adulti quando passavo per strada, gli sguardi delle madri, inorridite all’idea che le loro figlie potessero aver avuto a che fare con me. Ero diventata quella da non frequentare. I miei amici avevano preferito seguire la massa, piuttosto che starmi vicino. Ero completamente sola, o comunque, quando decidevo di uscire, tornavo a casa più triste di prima. Mi lanciavano le sigarette addosso, mi sputavano sui capelli».

Il bullismo è una forma di comportamento sociale intenzionale, che si concretizza attraverso azioni di natura fisica e/o psicologica, ripetuta nel corso del tempo nei confronti di persone considerate come bersagli facili, indifesi. «Amavo andare a scuola – ricorda A. – e mi piaceva studiare, scrivere, disegnare. Venivo sempre elogiata per la mia diligenza e vedevo negli insegnanti un modello da seguire. Purtroppo però, il mio ritorno tra i banchi era stato letteralmente un suicidio sociale: tutti sapevano e parlavano, nessuno escluso, insegnanti compresi, ma nessuno affrontava davvero l’argomento, come se tutto fosse normale».

Passano i giorni, le ricreazioni chiusa in classe, i pianti, le notti insonni, finchè A. decide di reagire, riconquistandosi uno dei tanti diritti che si era negata, per paura di incrociare i propri carnefici: sceglie di uscire fuori dalla classe durante la ricreazione, ma non va a buon fine.

«Una folla di studenti, circa una ventina, mi aveva circondata. Alcuni erano di prima, alcuni di seconda, altri di terza. L’unica cosa che sentivo era quello che gridavano a gran voce: “TROIA, TROIA”. Scappai in lacrime, verso le insegnanti, impassibili di fronte alla scena, che non mossero mezzo dito per impedire ciò che stava succedendo. La frase che mi venne detta per rassicurarmi: “Lasciali perdere”. Dovevo lasciar perdere, perché non importava che una studentessa di 12 anni venisse bullizzata in un ambiente che in realtà doveva e dovrebbe essere un luogo educativo in cui sentirsi sicuri e apprezzati, non importava a nessuno di quanto dolore potessi avere dentro di me, l’unica cosa che importava era far rimanere la cosa all’interno delle mura della scuola. Nessuno al di fuori doveva sapere, perché poi, in un paesino così piccolo, così insulso, così arcaico, chissà che fama avrebbero dato alla Scuola, o peggio ancora, alla Preside».

Nessun intervento per bloccare la furia della massa, nessuna punizione e nessun aiuto da parte di nessuno, seguirono questo momento. L’unico sentimento che occludeva l’esistenza di A, era la solitudine, l’idea di non avere più nessuno oltre alla sua famiglia.

«Nel frattempo, col passare degli anni, le storie si confondevano: circolavano nuovi pettegolezzi, ma piano piano tutto diventava meno pesante; o almeno, così sembrava. Forse perché avevo riservato così tante speranze nel futuro che mi attendeva. Le scuole superiori, il Liceo, i nuovi insegnanti, i nuovi compagni. Ero eccitata all’idea di poter ricominciare da zero, di potermi finalmente fare delle nuove amicizie, inconsapevole di ciò che mi attendeva. Il primo giorno di scuola ero troppo emozionata per potermene accorgere, ma nei giorni a seguire mi resi conto di avere sempre gli occhi di tutti puntati addosso. E non riuscivo a capire per quale motivo. Il motivo ovviamente era solo uno: tutti sapevano la mia storia, tutti sapevano della mia reputazione. Perché non erano stati di certo 18 km a far sì che le voci non circolassero al di fuori del mio paese».

Giunge così l’anno scolastico 2014/2015. A. si trova al Liceo. «Ore 13.15. La campanella era appena suonata, gli studenti e i professori stavano andando via, compresa me, che camminavo assorta in chissà quali pensieri cercando di accelerare il passo per non perdere il maledetto autobus. Avevo appena messo piede in giardino, quando mi sentii urlare “Porco”, accompagnato da un bel grugnito. Mi girai di scatto e vidi un gruppo di ragazze, di uno o due anni più grandi che ridevano a crepapelle, indicandomi. Alla scena assistettero diversi studenti, che si erano divertiti a partecipare a quell’orribile teatrino, e diversi professori, che avevano semplicemente finto di non sentire e avevano girato il viso da un’altra parte. Sentendomi a dir poco umiliata, me ne andai alla fermata del pullman, dove mi attendeva un’altra sorpresa: le stesse ragazze che dieci minuti prima mi avevano messo in ridicolo, adesso erano sedute sull’autobus, con un cartellone in mano che mostravano dal finestrino, con su scritto: “PORCO”.»

Anche in questo caso, tutti i presenti scelsero la via dell’omertà, decidendo quindi di non muovere un dito e, automaticamente, di assecondare i carnefici. Perché anche quando non si sceglie, si sceglie.

«Decisi che il giorno seguente avrei riferito ai miei professori ciò che era successo nel cortile della scuola, sperando almeno in un loro aiuto. Scelsero di far intervenire il Preside. Ho pensato che qualcuno avrebbe pagato, per quello che stavo passando, ma in realtà non fu così. Il Preside fece solo un discorso in cui parlava dell’importanza della convivenza civile che ci deve essere tra studenti, e che episodi del genere non venivano tollerati. Ma allora, se non venivano tollerati, perché non vennero presi provvedimenti?» Non tanto quanto la sete di vendetta, quanto piuttosto quella di giustizia attanagliava la gola di A., alla quale la Scuola, che dovrebbe essere portatrice di cultura, informazione, educazione, condivisione dei saperi e rispetto, ha invece scelto di tarpare le ali.

«Dopo svariati tentativi di migliorare la mia reputazione – prosegue A. – negli anni seguenti misi da parte la voglia di vivere o di combattere, avevo perso le speranze nei confronti del futuro, arresa all’idea che tutto quello, io, me lo meritavo. Iniziai a frequentare persone poco raccomandabili. Persi l’interesse nei confronti della scuola, iniziai a fumare, bere, a riempire i miei genitori di bugie, comportandomi come una alla quale non frega un bel niente degli altri, tanto meno di sé stessa».

Sola e immersa in una situazione molto più grande di lei. A. decide di non piegarsi ad anni di violenze, prendendo però una decisione che aggiungerà benzina a una reputazione sociale da anni a fuoco. «Col tempo – racconta A. – giunsi alla conclusione che in luoghi come l’Ogliastra sia impossibile cambiare le cose, perché isolati dal resto delle società, poco moderni in qualsiasi aspetto e molto tradizionalisti sulla maggior parte delle questioni, cosa che fa stare tutti sempre un passo indietro. Per questo ho smesso da un bel pezzo di piangermi addosso, pur avendo ancora una brutta reputazione, pur non avendo nessun amico con cui parlare, pur stando sempre seduta da sola in pullman come se avessi la peste. Non ha alcun senso dare importanza a delle persone che nella loro vita non faranno niente di niente per migliorare la propria terra, ma anzi, continueranno a promuovere pensieri e ideali standardizzati da bravi trogloditi quali sono. Puoi solo sperare in un futuro migliore, perché la vita, prima o poi, riserva a tutti qualcosa di bello».

Le parole di A. non riecheggiano come quelle di una vittoria: sanno più di rassegnazione, di accettazione passiva di una realtà grigia, che non piace, ma nella quale aleggia vago il bollino rosso della resistenza. Resistere per vivere, o forse per rincorrere una felicità perduta.

«Ho avuto più di un momento grigio nella mia vita – prosegue A. – ho commesso degli errori, ma ho passato degli anni orribili a combattere da sola contro tutti, senza trovare una motivazione per continuare a sopportare. E io, pur avendo sempre indossato la maschera della ribelle, di quella dura che non ha paura di niente, i lati deboli li lasciavo sempre intravedere, sperando che qualcuno mi aiutasse a superare tutta la m*rda che avevo passato. Questi segnali sono arrivati forti e chiari ai professori che ho avuto nel corso degli anni, che inizialmente hanno finto di interessarsi alla situazione. Ma questo interesse non si è mai trasformato in qualcosa di concreto, si è sempre tradotto in dei discorsi prolissi e ricchi di stereotipi, in cui la colpa, in un modo o nell’altro, veniva data a me. “Devi avere il buon senso di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato”, “Non saresti dovuta uscire con quelle persone”, “Non avresti dovuto scrivere quei messaggi”, “Lascia perdere queste storie, concentrati su qualcosa di bello, ad esempio, la scuola”. Questo è ciò che hanno fatto per me i professori, anche in momenti in cui mi vedevano crollare, in cui la pesantezza che avevo addosso prendeva il sopravvento su tutto il resto. Per loro, ciò che contava, a differenza degli insegnanti delle medie, era da un lato apparire interessati, pronti e disponibili con i ragazzi, dall’altra, fare il maggior numero di lezioni possibile, spiegare capitoli senza sosta, interrogare e giudicare continuamente. Aspetto, quest’ultimo, che prevale notevolmente rispetto al primo. E anche se a qualcuno potrebbe pure sembrare il ruolo fondamentale di un professore, a mio parere, un buon insegnante, oltre ad avere il ruolo di un educatore “manualistico”, deve rappresentare una persona di fiducia con cui poter parlare, che sia dalla parte degli studenti, che si immedesimi in loro. Purtroppo non mi è ancora capitato, in 12 anni di scuola fatti sino ad ora, di incontrare una persona così».

A. conclude il suo racconto con delle parole indubbiamente personali, ma che fanno riflettere e dovrebbero far riflettere la società tutta, troppo impegnata nei giudizi e poco nel rispetto, nella solidarietà e nell’attenzione. «Scuola non è solo matematica, italiano, latino, inglese. Scuola non è solo promozione o bocciatura, non è solo studio. Scuola è tanto altro: è la faccia assonnata degli studenti prima di iniziare la lezione, è le chiacchiere nel corridoio durante la ricreazione, è le risate al suono dell’ultima campanella. Insomma, è un mondo con mille sfaccettature che dovrebbe davvero rappresentare una sorta di rifugio dal mondo esterno per tutte quelle persone che non riescono a lasciar perdere, per le persone come me che continuano a piangere di nascosto sotto al cuscino, e che come me hanno chiaramente bisogno d’aiuto, di una parola di conforto o anche solo un abbraccio. Perché quel minimo di affetto che si può riservare ad una persona che non fa altro che soffrire, potrebbe migliorare una giornata o addirittura dare una speranza per continuare a combattere e farsi forza».

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