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Customer Files: casi (quasi) irrisolti Indagini semiserie nel mondo del marketing digitale, tra funnel misteriosi, clienti fantasma e conversioni scomparse.

Cronache di una Customer Journey
(…e non è un romanzo di Grisham!)

Era una mattina come tante, nella sede centrale del marketing di una rispettabilissima azienda del settore… beh, diciamo qualcosa-di-fondamentale-per-il-mondo. I piani alti avevano fiutato un problema, uno di quelli con la “P” maiuscola. Non un calo delle vendite – quello era solo il sintomo. Il problema vero era che non capivano più il cliente.

Il Direttore Marketing, barba curata e ansia cronica, entrò nella war room con una pila di report e il caffè già freddo.
«Abbiamo perso il contatto», disse.
«Di nuovo?», sbuffò la responsabile digital, scrollando una dashboard di Google Analytics che sembrava il tracciato ECG di un infartuato.
«Sì. Questa volta è sparito nel funnel e non abbiamo idea di dove sia andato. Ha abbandonato il carrello e… puff. Svanito. Nessuna traccia. Solo un clic a metà del secondo step di checkout. Un fantasma.»

Il Cliente.
Una creatura sfuggente, volubile, allergica ai pop-up e ossessionata dalle recensioni. Lo inseguivano da mesi, tra campagne multicanale e CRM che promettevano miracoli. Avevano segmentato, tracciato, analizzato ogni micro-dato come se fosse l’ultima sigaretta trovata sulla scena del crimine.

Ma la verità era una sola: non sapevano cosa passasse davvero nella mente del cliente.
Chi era?
Cosa cercava?
E soprattutto: perché, diavolo, aveva cliccato su “Aggiungi al carrello” per poi volatilizzarsi come un ladro in una notte di tempesta?

Così iniziò l’indagine.
Nome in codice: Customer Journey.
Obiettivo: capire dove inizia, dove si perde e – se Dio vuole – dove finisce.

I sospetti erano tanti:
• La homepage, colpevole di essere troppo generica.
• Il form di contatto, noto serial killer di lead, con le sue 27 voci obbligatorie.
• Il reparto assistenza, irraggiungibile quanto un testimone protetto.
• E il famigerato UX Designer, che parlava solo per wireframe e ogni tanto sussurrava “less is more” con aria ieratica.

Ma il vero colpo di scena arrivò quando, scavando nei dati comportamentali, trovarono una traccia:
Una sessione da mobile, durata 8 minuti e 47 secondi.
Due clic sul prodotto.
Uno scroll rapido.
Poi… un salto su TikTok.
Fine.

Era uscito dalla narrazione.

Avevano costruito funnel, customer personas, mappe empatiche e tone of voice calibrati al millimetro.
Ma lui – il Cliente – non seguiva lo script.

Il team, a quel punto, fu costretto ad ammettere l’ovvio: il cliente non è un target. È una persona.
E le persone non si comportano come avatar statici nei PowerPoint.
Sono impulsive. Distratte. Iperconnesse. E spesso, profondamente irrazionali.

Fu allora che decisero di cambiare approccio.
Invece di “guidare” la customer journey, cominciarono ad ascoltarla.
Parlarono con i clienti veri, senza filtri.
Analizzarono le emozioni, non solo i numeri.
Ristrutturarono la UX in base all’esperienza, non all’estetica.
Smisero di pensare ai touchpoint come caselle da spuntare e iniziarono a progettare esperienze.

E in un giorno grigio d’autunno, un ordine andò a buon fine.
Il cliente cliccò su “Acquista ora” e lasciò persino una recensione (5 stelle, per l’assistenza).

In fondo all’email scrisse:
«Grazie per avermi ascoltato.»

Era fatta.
Non avevano solo recuperato un cliente.
Avevano risolto il caso.

Postfazione (quasi seria):
La Customer Journey non è una sequenza meccanica. È un viaggio umano, fatto di emozioni, aspettative e deviazioni improvvise.
Le aziende che riescono davvero a comprenderla non sono quelle che parlano di “awareness” o “conversioni” a tavolino, ma quelle che ascoltano, testano, imparano e adattano.

Perché ogni cliente è una storia.
E ogni storia, se scritta bene, arriva sempre a destinazione.

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