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Perché capita che uno stupratore dopo aver scontato la pena reiteri il reato? Ne parliamo con l’avvocata Roberta Cannas

Roberta Cannas

Roberta Cannas

Dopo il recente caso di cronaca che ha visto protagonista una bambina di 11 anni che è stata violentata, abbiamo chiesto all’avvocata penalista del foro di Cagliari, Roberta Cannas se la repressione riguardo i reati di violenza sessuale sia efficace. Questo perché sono tantissimi gli stupri compiuti da uomini che hanno già scontato una pena per lo stesso reato.

Le pene inflitte a questi soggetti sono efficaci e in grado di scongiurare che questi vengano reiterati dagli stessi una volta usciti dal carcere? 

Quando si parla di violenza sessuale ci si riferisce ad ogni aggressione alla altrui sfera sessuale e, dunque, a una categoria di casi anche molto diversi tra loro che possono essere estremamente differenti in termini di offensività e quindi di pena. La violenza sessuale “classica”, mi si passi il termine, che non sia aggravata, è punita con la pena fino ai dodici anni. Se è aggravata – ad esempio dall’uso di armi o di sostanze droganti – è aumentata. Naturalmente la pena irrogata ad un soggetto dichiarato colpevole per tale reato è differente a seconda che lo stesso abbia scelto di essere giudicato con il rito abbreviato – che prevede la riduzione della pena di un terzo a fronte del “sacrificio” dell’imputato di essere giudicato sulla base dei soli atti di indagine, rinunciando al processo svolto nel dibattimento – oppure scelga appunto di essere giudicato con il rito ordinario.

Mentre cosa accade quando la violenza sessuale è di gruppo?

La violenza sessuale di gruppo è punita più severamente e la pena irrogabile va da otto a quattordici anni. In sostanza non si può dare una risposta secca rispetto a quanto durano le pene per chi è stato condannato per violenza sessuale, a quanto il condannato sta in carcere, ma si può affermare che in caso di condanna non si può evitare il carcere. Infatti il reato di violenza sessuale è tra quelli per i quali l’ingresso in carcere, dopo il
passaggio in giudicato della sentenza è obbligatorio, e non è possibile chiedere misure alternative alla detenzione se non a determinate condizioni, ossia che il condannato sia sottoposto, in carcere, ad una osservazione qualificata che coinvolga un esperto. C’è solo un’eccezione ossia che la persona condannata per violenza sessuale – ma parliamo appunto di aggressione all’altrui sfera sessuale giudicata di minore gravità e quindi certamente non parliamo di violenza carnale – sia condannato ad una pena inferiore ai due anni e quindi sia concessa la sospensione condizionale della pena.

I condannati dentro il carcere svolgono un percorso di recupero diverso e mirato? Ci sono figure professionali adeguate che se ne occupano?

Come ho detto, durante l’esecuzione della pena le persone condannate per il reato di violenza sessuale sono soggette ad una osservazione qualificata perché, a differenza dei condannati per i reati così detti “comuni”, questi soggetti devono svolgere un preciso percorso che, oltre alla necessaria funzione dell’educatore, coinvolga un esperto in psicologia. Tale percorso deve essere svolto per almeno un anno. Questa indicazione temporale non deve però trarre in inganno. Ciò non vuol dire che dopo un anno di detenzione, le persone condannate per reati di questo tipo possono uscire dal carcere, vuol dire solo che la loro eventuale richiesta di misura alternativa è astrattamente ammissibile, ovviamente a patto che la pena che resta loro da scontare sia inferiore a quella prevista dalla legge per richiedere ad esempio l’affidamento in prova, che nel caso specifico è di quattro anni. Si comprende dunque che se la condanna inflitta è complessivamente di otto anni questi soggetti vengono valutati dall’equipe che coinvolge l’esperto per un periodo molto lungo e nella stragrande maggioranza dei casi per un periodo certamente superiore ad un anno.

E allora cosa non funziona?

Le figure professionali che se ne occupano sono certamente adeguate ma in realtà il vero problema è il rapporto numerico tra i detenuti e gli operatori dell’area educativa nonché gli esperti psicologi. Non si può negare, infatti, che il numero di detenuti – sempre molto alto in Italia – implicherebbe la necessità di aumentare le risorse anche e soprattutto umane che lo Stato destina alle carceri.

Lo Stato si impegna a capire se la persona è stata recuperata ed è quindi in grado di essere reinserita nella società?

I Tribunali e i Magistrati di Sorveglianza hanno la funzione di verificare esattamente se la persona condannata – per qualsiasi reato compresi quelli in materia sessuale – abbia svolto un serio percorso di revisione critica dei propri agiti devianti e se sia quindi pronta a sperimentarsi in libertà. Questo ovviamente quando il soggetto chieda di terminare la propria pena fuori dal carcere attraverso l’ammissione ad una delle misure alternative alla detenzione. È evidente che se un soggetto condannato per un reato in materia sessuale sconta la sua intera pena in carcere, deve tornare in libertà a prescindere dalla valutazione sul suo “recupero”. Pertanto, devo ripetermi, è oltremodo importante che il percorso all’interno del carcere sia serio e rispondente alla funzione della pena prevista dalla nostra Costituzione ossia la rieducazione del condannato. Naturalmente perché ciò avvenga è necessario che il sistema dell’esecuzione penale funzioni bene e come sempre perché funzioni bene contano i numeri. Il numero dei detenuti e il numero delle persone che all’interno del carcere se ne occupino. Uno stato che sia solo repressivo e non investa risorse nell’esecuzione della pena in generale e nella esecuzione carceraria in particolare certamente fallisce questo obiettivo. Questo vale per ogni condannato ma vale ancora di più per quei condannati per cui la legge dello stato ha previsto un particolare percorso che coinvolga soggetti qualificati che lavorino sulla personalità del condannato in maniera davvero efficace. Per riassumere, perdoni la schiettezza, non credo che il punto sia il numero di anni che si passano in carcere ma come li si passi.

Cosa andrebbe fatto per limitare al minimo i casi di reiterazione?

Personalmente credo nella possibilità di recupero di ogni persona e qualunque sia il reato di cui si è macchiato/a. Quindi, mi riallaccio a quanto già detto in precedenza, l’unico modo, può sembrare banale o retorico, credo sia pretendere che la pena assolva la propria precipua funzione investendo risorse di ogni tipo nella rieducazione del condannato, consentendogli di accedere a percorsi psicologici e pedagogici in senso ampio che siano davvero funzionali al suo recupero mirato e non siano – ad esempio per carenza di personale in proporzione alla popolazione detenuta – meramente formali. Ciò naturalmente fino a prova contraria. Esistono già nel nostro ordinamento tutta una serie di misure che in caso di reiterazione approntano specifiche risposte dell’ordinamento. Mi riferisco in particolare alle misure di sicurezza personali che possono essere applicate in sentenza ai soggetti ritenuti socialmente pericolosi e che impongo dopo l’espiazione della pena una valutazione del Magistrato di Sorveglianza sull’attualità della pericolosità di quel soggetto. Ma questa valutazione, ancora una volta, passa dalla necessità che l’osservazione della personalità sia condotta con strumenti adeguati da un lato per scongiurare limitazioni della libertà personale che non siano assolutamente necessarie e dall’altro di evitare in tutti i modi il rischio che soggetti non ancora recuperati, dopo l’espiazione della pena, possano ricadere nel reato.

Da avvocata ci spiega quali passi deve compiere una vittima nel momento in cui sporge denuncia? Cosa fare e non fare per cancellare le prove?

Faccio una premessa doverosa. Ormai il personale medico dei pronto soccorso e gli operatori delle Forze dell’Ordine sono formati per accogliere e tutelare le vittime di violenza sessuale. Nessuna persona che abbia subito un’aggressione alla propria sfera sessuale deve dubitare di non essere adeguatamente tutelata o peggio ancora di dover “dimostrare” di aver subito quel tipo di violenza. Certamente il primo passo quindi è quello di richiedere l’intervento delle forze dell’ordine e del personale medico. Poiché capita che le vittime di violenza sessuale conoscano il loro aggressore o, peggio, che abbiano un rapporto personale con questo, è molto importante che le stesse raccontino i fatti senza omissioni, senza celare circostanze che ritengono “irrilevanti” o, peggio, senza omettere particolari che a loro giudizio le metterebbero in “cattiva luce”. Sebbene sia comprensibile un certo atteggiamento di protezione per la propria sfera intima da parte delle vittime di questo tipo di reati, è importante che ci si affidi alle forze
dell’ordine, ai magistrati e anche agli avvocati per ottenere piena tutela e per consentire l’accertamento dei fatti e l’individuazione del colpevole.

Secondo lei i processi sono ancora troppo umilianti per la vittima? Cosa andrebbe cambiato nella procedura di indagine e anche riguardo il colloquio nei casi di reati sessuali?

Questo è un tema spinoso e mi rendo conto che la risposta di un avvocato difensore non sia sempre gradita. Certamente il processo per violenza sessuale è estremamente stressante e spesso doloroso per la vittima che deve rievocare gli accadimenti a volte nel dettaglio, spesso in
un momento della propria vita in cui cerca di superare invece il trauma. Tuttavia questa comprensibilissima circostanza, e la stessa necessità di tutela della vittima, non può mai implicare il sacrificio delle garanzie difensive e quindi della possibilità per l’imputato di esercitare il suo diritto di difesa nel processo. Capita che l’opinione pubblica stigmatizzi l’operato degli avvocati difensori dell’imputato che porrebbero domande “umilianti” o avrebbero un piglio difensivo insensibile. In realtà va detto che nel corso del processo è il Giudice ad ammettere le domande, solo ove siano rilevanti, ed è sempre il giudice a controllare che l’accusa e la difesa nell’esaminare la persona offesa rispettino le regole dell’esame e del contro esame.

Ecco, la deposizione della vittima è necessaria all’accertamento del fatto e tanto più completa è la sua deposizione tanto più fondatamente si perverrà all’accertamento del fatto in modo che quel nucleo di prova resista a qualsiasi ricostruzione alternativa e a qualsiasi censura, anche nell’interesse della vittima stessa. Il processo è in sé un fatto molto doloroso per qualsiasi persona offesa, soprattutto dai reati contro la persona, e non di meno nessuna regola che consenta di pervenire a una sentenza  al di là  di ogni ragionevole dubbio è rinunciabile. E ciò lo ripeto anche nell’interesse della vittima. Ebbene io non credo che ci sia qualcosa di specifico da migliorare nella procedura riguardo alla fase delle indagini preliminari. Credo invece che si debba investire nella formazione degli operatori e delle operatrici delle forze dell’ordine, come già comunque si è fatto in questi ultimi anni, che lo stato dovrebbe assicurare alle persone offese da questo tipo di reato il necessario supporto qualificato nella fase immediatamente successiva alla querela e nel corso delle indagini.

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