Site icon cagliari.vistanet.it

«Questo mondo ti cambia la vita»: la parola a Manuela Vadilonga, operatrice del 118

«Far parte di questo mondo è qualcosa che ti cambia la vita.  Se tornassi indietro rifarei assolutamente tutto.»

Sono gli angeli che appaiono all’improvviso, quando accadono le tragedie, e che soccorrono le persone coinvolte. Sembrano fatti per tre quarti di coraggio e un quarto di umanità, non si fermano davanti a nulla e la loro è una missione, più che un lavoro. Ma sono umani, e spesso fanno la differenza anche a livello di empatia.

Sono gli operatori del 118, quelli che si chiamano quando accade qualcosa di brutto che si sa – si sa! – solo loro sanno gestire.

Tra loro, la 48enne Manuela Vadilonga, per metà sarda e per metà emiliana da parte di madre. Tra i momenti più gratificanti, quello in cui «sai di aver fatto tutto il possibile e sei stato il soccorritore che avresti voluto arrivasse per te».

Sì, perché il loro – come abbiamo detto – non è solo un impiego, per cui ci si propone da volontari, ma una vocazione. Una mission che non è impossible. Manuela, dopo 27 anni di attività da sub, dal soccorso in mare e da guida subacquea per portatori di disabilità fisiche, si è poi trovata immersa in questo mondo fatto di ore piccole e di sacrificio e… se ne è completamente innamorata, senza se e senza ma. Ora, il suo ruolo è capo equipaggio. «Mi occupo anche di formazione a 360 gradi con “Lion Training group” che afferisce al centro di formazione “Modena 18″» racconta. «In più sono responsabile formazione dell’Associazione Croce D’oro Cagliari.»

Ma non è sempre semplice.

«Il soccorso più brutto? L’incidente del bambino di Via Cadello. E sì, ho pensato di mollare. Purtroppo mi fa ancora male, e ho difficoltà a parlarne.»

Vadilonga fa riferimento a un tragico incidente che portò alla morte di un bimbo di un anno e poco più, Daniele, falciato da uno scooterone mentre era con la sua mamma.

«Razionalmente parlando non so bene come si possa gestire tutto questo» continua l’operatrice. «Di sicuro la squadra e i colleghi con cui affronti giornalmente queste situazioni sono di grande supporto. Siamo dei grandi contenitori di emozioni, non solo nostre ma anche e soprattutto degli altri. Quindi cerco di conservare ogni contenitore e andare avanti. Ogni tanto ne prendo uno e sbircio dentro.»

Anche loro gestirono, insieme a tanti altri angeli del mondo sanitario, l’emergenza mondiale da Covid-19.

«Ci sarebbe davvero tanto da dire, sembra successo una vita fa» racconta. «Abbiamo combattuto soprattutto all’inizio un qualcosa che non conoscevamo, eppure eravamo tutti lì, a girare tra le strade deserte, a entrare nelle case della gente con quelle tute terribili per portare in ospedale chi stava male… una persona sempre cara a qualcuno che probabilmente non sarebbe più tornata a casa. È stato snervante, faticoso ma ha fatto da collante tra i soccorritori. Ci siamo supportati tutti. Tanto. Ci sono delle dinamiche di quei giorni che non si possono descrivere ma assicuro che viverle è stato ben diverso da quello che le persone “normali” hanno affrontato.  La paura di contagiare chi ci aspettava a casa, di contagiarci noi, attese devastanti dentro quelle tute… i sacchi neri… le persone che credevano che girassimo con le sirene senza nessuno dentro, pensando che facessimo terrorismo per spaventare tutti. Scriverlo non rende quanto raccontarlo a voce.»

E sentire queste parole è come fare un tuffo all’indietro, in quello che è stato un film horror che tutto il mondo ha vissuto. Sì, ma loro di più. Con più responsabilità – sulle loro spalle, la nostra salute – e con più angoscia, ma senza venire meno ai propri, gravosi compiti. E a chi vuole intraprendere questa carriera, be’, la 48enne dà un consiglio: «Suggerirei a chi volesse affacciarsi a questo mondo di farlo assolutamente perché è vero che toglie tanto, in termini di emozioni, sonno e fatica. Ma è qualcosa che ti cambia la vita.  Se tornassi indietro rifarei assolutamente tutto.»

Exit mobile version