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Sconfigge un cancro da bambina, ora è felice. La storia di Ilaria Palmas: «Mi ha resa un’adulta testarda e tenace»

Quando si pensa alla giovinezza – nella fattispecie a quel magico periodo tra i nove, dieci e i tredici, quattordici anni, quando tutto dovrebbe essere semplice, bello, senza macchia –, vengono in mente tante cose, tutte positive. Le corse verso il mare, a piedi scalzi. I primi batticuori, timidi ma così intensi. Ogni emozione a mille, pianti e gioie dell’adolescenza. Ma spesso il destino non è così clemente ed è terribile sapere che alcune persone abbiano combattuto una guerra in quella che è un’età così particolare, così fragile, così densa di cambiamenti e crescita.

Ilaria Palmas ha ora trent’anni e solo due mesi fa ha coronato il suo sogno d’amore sposando il suo Andrea. I due novelli sposi vivono a Oristano ma Ilaria ha una storia particolare alle spalle, una storia che odora di coraggio e di tenacia: l’ora trentenne è infatti una di quelle piccole guerriere che, nell’età di cui abbiamo parlato prima, ha combattuto unghie e denti contro un male oscuro.

«Lavoro in un supermercato come cassiera e sono una ragazza “diversa”» racconta. «Sono nata il 23 maggio del 1993: una domenica e forse, come dice mia mamma, è per questo che sono così pigra… Ho una sorella: Giulia, di cinque anni più grande di me e da piccole eravamo sempre in lite! Niente di particolare, le solite liti tra sorelle» racconta, parlando di una normalità che sa di famiglia e di dolce serenità. «Appartengo ad una normalissima famiglia, ci definiamo i 4 moschettieri, infatti il nostro motto è: “uno per tutti e tutti per uno!”»

La sua infanzia procede serenamente: «Ho sempre avuto un carattere allegro e mi sono sempre mostrata aperta nelle relazioni sociali, tanto da avere tanti amici e amiche. A volte, a dirla tutta, sono stata un pochino rompiscatole perché non sopporto le ingiustizie e mi ergo al ruolo di “paladina della legge”» ride.

La sua unica vera, grande amica è Letizia – dice – che conosce sin dalla scuola dell’infanzia. «Solo l’Università ci ha separate, ma non troppo perché, pur non vendendoci spesso per impegni lavorativi, sappiamo di “esserci sempre l’una per l’altra”.»

Insomma, nessuna nuvola sembra oscurare il cielo della ragazzina. Questo però solo fino all’estate 2006, quella dell’inizio del suo calvario. Come tutte le estati, la famiglia Palmas si sposta al mare: quell’anno in particolare si recano a Bari Sardo.

«Avevo 12 anni, un’età in cui inizi a sentirti “grande”: le prime passeggiate in centro con gli amici, senza la presenza costante dei genitori. Si stava rivelando una bella vacanza, come lo erano state tutte le precedenti, fatta di sole, mare, e tanto divertimento in spiaggia.»

Ma un giorno Ilaria nota un rigonfiamento nel ginocchio sinistro e prova un dolore strano: «Lo dissi a mamma e lei, data la mia grande dinamicità e anche sbadataggine, lo attribuì a un colpo sicuramente preso giocando in spiaggia, ma io non ricordavo di aver sbattuto né tanto meno di essere caduta.»

Passano i giorni ma gonfiore e dolore non diminuiscono, addirittura, peggiorati, la svegliano persino la notte. Aspettano ancora, del resto non sembra particolarmente grave: mettono una pomata sul gonfiore e Ilaria prende qualche antidolorifico ma un giorno la febbre sale a quaranta gradi. La decisione è presto presa: si torna a casa, a Oristano.

«Giunti a casa, mamma chiamò la mia pediatra che non sottovalutò i miei sintomi, anzi mi disse che mi sarei dovuta sottoporre a tutti gli esami di rito per vedere di che cosa si trattasse. Feci subito una radiografia, ma nel frattempo, essendoci il Luna Park a Oristano, nonostante il forte dolore, volli andarci tutti i costi. La spensieratezza durò poco, perché dopo circa un’ora chiamai mamma e le dissi di venire a prendermi: il dolore era diventato insopportabile.»

Il 13 settembre del 2006 la famiglia Palmas ritira l’esito della radiografia: «La diagnosi non ci lasciò scampo: sospetto Osteoblastoma. Ricordo ancora l’espressione del viso di mamma mentre, presa la macchina, ci recammo dalla dottoressa per mostrarle quell’infausto esito. Non potevo certo immaginare cosa stava per accadere: avevo solo 12 anni!» aggiunge. «Eravamo io, mamma e questo inquilino indesiderato in me: babbo era rientrato al lavoro e mia sorella Giulia si stava preparando per il rientro a scuola, per lei sarebbe stato l’ultimo anno al Liceo Classico.»

Ilaria si sottopone a mille visite: fa radiografie, scintigrafie ossee e viene presto sballottata da un ospedale all’altro. «Intanto, il tempo passava e, giunto settembre, arrivò anche il primo giorno della terza media. Quel giorno lo ricordo come se fosse ieri. Mi ricordo che ero contenta di rivedere i miei compagni, ero tranquilla, fino almeno al momento in cui giunse in classe la bidella che mi invitò ad uscire dall’aula: mamma mi aspettava, dovevamo andare a Cagliari a fare una risonanza magnetica.»

Purtroppo, in quel periodo già denso di preoccupazione e timore, un’altra batosta si abbatte sulla famiglia: la nonna Checca, a causa di una recidiva al seno, viene ricoverata all’Oncologico di Cagliari.

«Di comune accordo, decidemmo di lasciarla, almeno durante la degenza in ospedale, tranquilla e, infatti, nessuno le disse quanto stava accadendo.»

Arriva il giorno della risonanza magnetica.

«Ricordo che facesse un gran caldo, nonostante fosse settembre: indossavo una maglia con le maniche corte. Nonostante questo, nell’istante in cui entrai nello studio radiodiagnostico, oltre alla grande paura ricordo una sensazione di freddo estremo… Mi prepararono per la visita: mi misero un ago nel braccio, collegato a una sorta di pistola che aveva del liquido dentro; mi fecero togliere i pantaloni e mi infilarono in un tubo lungo e stretto. Provai una brutta, bruttissima sensazione: oltre al freddo mi sentii sola e per anni questo ricordo mi ha terrorizzata! Ero preoccupata per mia mamma, ma per fortuna sapevo che non era sola perché aveva vicino Marty e Cacco, miei zii. La visita durò circa un’ora e dopo andammo da mia nonna o, meglio, mi lasciarono in ospedale da mia nonna, mentre mia mamma e i miei zii non ricordo cosa fecero e dove andarono.»

Quel giorno la vita di Ilaria e della sua famiglia cambia radicalmente: indirizzati dalla pediatra, si recano al Microcitemico di Cagliari e lì la ragazzina conosce il dottor Giulio Murgia, primario del reparto di Oncoematologia Pediatrica.

«“Ilaria, hai un Osteosarcoma Osteoblastico, un tumore osseo, devi fare la chemioterapia”, ecco cosa mi disse dottor Giulio che da quel momento non sarebbe stato solo il mio oncologo, ma anche il mio migliore amico nonché confidente» continua Ilaria. «Subito associai la terapia che mi apprestavo a fare alla perdita dei capelli: avevo vissuto le cure di mia nonna e l’unica cosa che avevo notato era quella… del resto avevo solo 12 anni!»

Il 26 settembre del 2006 la ragazzina si reca al CTO Careggi di Firenze, un centro specializzato, per fare una biopsia.

«A causa del prelievo del mio sgradito ospite, mi era impedito alzarmi per andare in bagno ma mio babbo e un infermiere mi presero in braccio e potei andare.»

Dopo Firenze, rotta verso Cagliari: ahimè, il Microcitemico diventa per Ilaria e la sua famiglia una seconda casa per un anno.

«Grazie a dottor Giulio conobbi Benedetta, una ragazza di un anno più grande di me che aveva già iniziato a combattere quell’indesiderato ospite, battaglia che di lì a breve sarebbe stata anche la mia. È inutile dirvi che siamo diventate amiche!»

Il 9 ottobre del 2006 Ilaria inizia le cure: «O meglio, iniziammo: l’uso del plurale non è casuale, perché quella battaglia venne combattuta da tutta la mia famiglia: mamma, babbo, Giulia… Nel primo ciclo di chemioterapia mi iniettarono il Metrotrexate: avevo un ago infilato nel braccio e un liquido giallo fosforescente iniziò ad entrare nelle mie vene. Dopo quattro giorni di terapia mi dimisero, ma era solo l’inizio. Quel giorno babbo prese la stampella a mo’ di fucile e io fiduciosa gli dissi di sparare alla bestia che avevo nel ginocchio»

Inizia una terribile routine fatta di nausea e tanti altri effetti collaterali, ma soprattutto i soggiorni della ragazzina in Ospedale diventano sempre più frequenti e lunghi: «Le mie difese immunitarie crollarono e imparai una nuova parola: “aplasia”. L’aplasia portò con sé la febbre e una stanchezza lacerante. Le mie relazioni sociali si annullarono: troppo pericolose! Per evitare che le mie vene si bruciassero mi misero un CVC, un catetere venoso centrale, collegato direttamente alla vena Aorta: un segno indelebile nel mio corpo.»

E, dopo una ventina di giorni, la piccola combattente inizia a perdere i capelli. «Fu Mario, barbiere e vicino di casa, a rasarmi i capelli che già avevo iniziato a perdere a ciuffi e, nonostante tutti mi dicessero che sarebbero ricresciuti più belli e anche ricci, non riuscivo a capacitarmi di quanto mi stava accadendo: “Perché a me, cosa ho fatto di male?”, continuavo a ripetere queste parole.»

«Il 12 gennaio del 2007 ho subito un intervento al Careggi di Firenze che mi ha reso “bionica”: ho, infatti, una protesi che sostituisce quasi per intero la mia gamba sinistra. Ho fatto 18 cicli di terapia e passato tanto tempo in Ospedale, ho imparato a conoscere gli infermieri Cinzia, Roberto, Sara, Fabio e tutto il personale che ricordo con affetto, perché in quel momento anche loro sono stati parte della mia famiglia, ma soprattutto ho conosciuto tanti bambini e ragazzi che come me hanno combattuto questa terribile battaglia: alcuni hanno vinto altri, purtroppo, no.»

L’ultima terapia viene fatta il 23 settembre 2007: «La mia vita, seppur lentamente, riprese il suo corso naturale o quasi, perché vivere con una gamba “bionica” sembra FACILE, ma vi assicuro che non lo è affatto.»

Al rientro a casa, una grande gioia: Ilaria viene accolta da tutta la famiglia e dalle persone a lei più care: «La mia amica Leti, le mie adorate professoresse… Finalmente, dopo tanto tempo, mi sentii al settimo cielo.»

E nel 2020, dopo 13 anni, Ilaria torna all’Ospedale Careggi di Firenze per sostituire la protesi che inizia a “scricchiolare”: «È stato faticoso prendere confidenza con un nuovo pezzo di me ma ci sono riuscita.»

«Sono trascorsi 17 anni da quel maledetto settembre del 2006; il mio corpo ha tanti segni, alcuni molto visibili, altri me li porto dentro: fanno parte di me. Quando, alla vista della cicatrice che si allunga nella mia gamba, mi chiedono cosa abbia avuto, rispondo di aver avuto un cancro che ha cambiato la vita dell’adolescente di 13 anni che sono stata e della donna che sono oggi. Sì, perché, forse senza il cancro non sarei la persona che sono diventata: testarda e che non molla al primo ostacolo. Se posso dare un consiglio, godetevi la vita, tutto ciò che vi capita che siano gioie o dolori.»

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