Site icon cagliari.vistanet.it

Sconfigge un tumore a 13 anni, ora è una donna realizzata, la storia di Valentina Evoristo: «Ho sempre il sorriso»

«Ero una ragazzina tranquilla, stavo iniziando ad approcciarmi con le prime feste di compleanno e uscite senza i genitori ma quello che mi piaceva di più era lo sport, il basket prima (abbandonato perché crescevo troppo velocemente rispetto ai miei compagni e non volevo avere un 43 di piedi) e il ballo latinoamericano poi. Che la famiglia sarebbe stata l’unica cosa che contava forse l’ho capito ancor di più a 14 anni!»

Inizia così il racconto di Valentina Evoristo, oggi 33enne realizzata ed equilibrata. Ci sono sfide che una ragazzina che sta, piano piano, diventando donna non dovrebbe affrontare. Sì, perché a 13 anni si dovrebbe pensare allo sport e magari anche alle prime cotte, quelle che ti danno il batticuore. È l’età in cui tutte le emozioni si vivono a mille, con il cuore in gola.

Ma Valentina, proprio in quello che dovrebbe essere il periodo più spensierato della sua vita, si trova davanti uno scoglio non indifferente.

Andiamo per ordine.

La 33enne nasce a Cagliari, ma vive da sempre a Monserrato. La sua vita scorre normale per infanzia e inizio di adolescenza: «In famiglia siamo 3 donne e papà, sono cresciuta avendo un legame a livello familiare molto forte, forse perché sono cresciuta a strettissimo contatto con la famiglia di mamma visto che vivevamo tutti vicinissimi: c’erano i miei nonni (venuti a mancare) poi zii e cugini, 8 contando anche me e mia sorella, nati ognuno ad un anno di differenza dal precedente, praticamente coetanei o comunque cresciuti assieme.»

Con la famiglia del padre – che vive a Cagliari – gli incontri sono meno frequenti, ma comunque ci si vede una volta a settimana.

Da qualche mese, la ragazzina sente male al ginocchio. Dopo sei mesi di fastidi, i genitori decidono che sia il caso di fare una lastra: «Quel fastidio, specie a fine serata, e quelle due lineette di febbre magari non erano solo colpa dell’umidità e della stanchezza!»

Quando riescono a fare la lastra al SS. Trinità, le parole del medico sono: «La bambina ha delle cisti della crescita vi consiglio di andare a farvi una chiacchierata col professor Capanna che lavora a Firenze».

La famiglia non si allarma, non sanno esattamente di cosa si possa trattare ma partono: «Io, mamma e papà abbiamo preso i bagagli e una sera di metà dicembre ci siamo presentati nel suo studio privato, con le lastre fatte a Cagliari. Ricordo solo le sue parole: “Domani portate la ragazza al CTO Careggi che facciamo degli accertamenti”. Lui aveva già capito tutto ancora prima della biopsia, tant’è che al ricovero mi ha messa in stanza con due ragazze, Roberta di 17 anni e Alice di 15 anni, lì per effettuare l’intervento chirurgico post chemio. Mi ricorderò sempre quel giorno perché, in attesa del letto, ho visto prima Roberta con dei bei capelli neri lunghi, poi in camera l’ho vista con un foulard e poco dopo totalmente pelata.»

Per la ragazzina, che aveva vissuto per 13 anni in un mondo perfetto, è un duro colpo.

In quella settimana comunque fa amicizia con le altre ragazze e anche i suoi genitori incontrano persone che rimangono nel loro cuore.

«Il referto della biopsia è arrivato come un macigno.»

I genitori sono devastati: devono comunicare alla propria piccola una notizia stravolgente: «Dovettero dirmi che il male di Roberta e Alice lo avevo anche io e che il giorno dopo saremmo dovuti andare in un altro ospedale per iniziare le cure.»

Ma non solo: fino all’intervento le stampelle avrebbero dovuto essere le sue gambe, perché non si poteva caricare peso sulla gamba “malata”.

«L’unica cosa che percepivo era lo spavento, mio e dei miei genitori, perché anche se mi dicevano che dovevo fare la chemio in quel nuovo ospedale non sapevo cosa volesse dire.»

Arrivano al Meyer e la preoccupazione aumenta: «C’era un corridoio lungo con forse 8 camere, 4 per lato, con le porte aperte e due letti per stanza, i bambini presenti erano tutti attaccati a delle macchine che suonavano, tutti senza capelli e pallidi in viso.»

Anche la piccola Valentina viene attaccata a una di quelle macchine: «Iniziarono anche per me le cure che, benché fossero durate pochi giorni, giusto 4, lasciarono il segno per tanti altri giorni fino a che non mi stabilizzai. A quel punto, prendemmo l’aereo per tornare a casa e festeggiare il Natale con la famiglia di mamma. Tornare a casa era l’unica cosa che tutti desideravamo, pur sapendo che dopo qualche settimana un aereo con direzione Firenze ci aspettava.»

Mentre Valentina deve fare i conti con i primi capelli che cadono, cercando anche di riposarsi e di mangiare bene – per far salire i valori –, i suoi genitori devono occuparsi, oltre che dell’altra figlia, anche delle incombenze burocratiche legate alla malattia di Valentina. «In più,» spiega la 33enne «dovevano cercare di tenere, stampato in viso, il sorriso.»

Nel frattempo, le zie parlano con preside e maestre in modo da non farla sentire diversa nei giorni in cui può frequentare. «Dai miei compagni ho trovato il pieno supporto e accoglimento, tant’è che venivo coinvolta e invitata anche ai compleanni.»

Ma Valentina si sente diversa, sa di essere cresciuta molto in questo periodo, di essere maturata – ahimè – tutto insieme. Loro sono ragazzi e pensano alle cose da ragazzi, lei è adulta e sta combattendo.

«La batosta più grande è stata perdere i capelli perché, finché combatti in silenzio e sei solo pallida, lo puoi camuffare col trucco ma quando sei rasata sei proprio malata! Nonostante tutto, riuscivo a mettermi su una maschera con un bel sorriso e andare avanti giorno dopo giorno, soprattutto per non far preoccupare ulteriormente i miei genitori: così avevo imparato da Roberta e Alice. Ho capito che dovevo essere bambina nel richiedere più coccole di quelle che davvero avrei voluto, dovevo essere casinista urlando e giocando con chi avevo intorno e dovevo avere sempre il sorriso anche se non nego che ogni giorno, quando si spegneva la luce, mi ritrovavo a piangere in silenzio e a chiedermi perché tutto ciò stesse capitando a me!»

Passano i primi quattro, cinque cicli di chemio e tutto sembra andare bene: certo, Valentina e la famiglia devono affrontare mille voli Cagliari/Firenze Firenze/Cagliari. «Tornare a casa da mia sorella, zii e cugini era l’unica cosa che mi dava la forza di mangiare e di stare bene… be’, come poteva essere il contrario se ad ogni ritorno a casa c’era una festa di “bentornati a casa”?»

Tutti dicono ai genitori che non andava bene per Valentina questo andirivieni continuo: del resto ha sempre i valori molto bassi e chissà quante infezioni o malattie ci sono in giro. Ma loro sono coraggiosi, non si fanno fermare: «Oltre a me, avevano un’altra figlia e il lavoro di mio padre cominciava a creare problemi. Tuttavia, visto che dal Meyer – nonostante il protocollo – non concesero di proseguire le cure a Cagliari, fare avanti e indietro era l’unica cosa che restava da fare!»

Aprile: ecco la data dell’intervento e a partire sono tutti, tra cui la sua amata sorella 19enne. «Quel mese in ospedale è stata di grande aiuto sia a me, che la adoravo e volevo stare il più possibile con lei, e sia ai miei perché gli preparava il pranzo o gli dava il cambio in ospedale.»

L’intervento va bene: asportazione del tumore con inserimento di mega protesi femore, tibia e parte di ginocchio. «Di mio ho solo la rotula, anche se dopo una settimana sono dovuta tornare in sala perché un catetere si è ostruito e non stava spurgando il sangue, mi è salita la febbre e non so quanti liquidi mi abbiano tolto. Comunque, tra un urlo e l’altro, con gli infermieri che mi pungevano le vene senza alcun riguardo, è andato tutto bene» racconta. «Dopo l’intervento le chemio da fare sarebbero state 8, nonostante il referto istologico al 98%.»

I genitori di Valentina allora chiedono a gran voce l’affidamento delle cure al Microcitemico di Cagliari: il loro lavoro è in bilico e non possono restare senza un’entrata. I medici quindi si mettono in contatto con Cagliari e tutto sembra sistemarsi, nonostante la paura più che altro legata alle differenze di protocollo. «A Firenze la chemio durava 3 o 4 giorni e poi a casa mentre a Cagliari, dopo quei giorni, c’erano altri 2 giorni in più di ricovero per ripulire il corpo dalle sostanze tossiche della chemio e consentirmi di stare meglio fisicamente.»

Tutto fa paura ma alla fine si rivela la scelta vincente.

«È stata solo una benedizione tornare a Cagliari perché il mio corpo reagiva meglio e per tutta un’altra serie di motivi come l’avere riservatezza, una stanza da sola dove poter passare le giornate senza dover invece sentire le storie di tutti e avere mille pensieri e preoccupazioni.»

E non solo: la collaborazione tra Cagliari e Firenze è tanta che alcuni pazienti sardi possono seguire il protocollo anche da casa.

«L’ultima chemio è stata fatta ad ottobre» spiega.

Viene usata la vena meno fragile, quella laterale del polso: «Le altre vene ormai erano troppo fragili e si rompevano. La prima volta al Meyer mi chiesero se volessi o meno mettere il catetere CVC ma mi rifiutai e dissi: “Fino a che reggono le vene usiamo quelle”.»

Nonostante sia l’ultima sfida, Valentina non ha ricordi particolarmente belli del periodo: del resto, in questi casi, la recidiva è dietro l’angolo e i controlli sono ogni tre mesi.

«Dopo due anni con una delle visite di routine sono spuntate due cisti ai polmoni ed è stato letteralmente PANICO. Alla visita del mese successivo, una bella scoperta: fortunatamente si erano un po’ riassorbite e ciò faceva pensare solo a delle cicatrici di una bronchite o simile. Così è stato perché a 20 anni praticamente dalla fine delle cure niente è ad oggi comparso.»

Sì, ma cosa lascia una situazione simile? Si possono dimenticare totalmente il dolore, la paura, la tristezza e l’incertezza? Si può fare tesoro di quel che è stato per vivere meglio?

«Mi ha lasciato un legame fortissimo e indissolubile con la mia famiglia e con mia sorella, tant’è che prima dell’intervento ho fatto una promessa a mia madre. Le ho detto: “Se guarisco, voglio fare un viaggio con mia sorella e voglio un cane dentro casa”. Dopo qualche anno, una volta che ci siamo stabilizzati, è arrivato il viaggio… una bella crociera ai Caraibi con mia sorella e il suo compagno (attuale marito). Non so se per lei sono stata più un peso o altro, visto che anche lei ha rinunciato alla sua crescita “normale e spensierata” per una sorella che le stava sempre attaccata, una sorella che si doveva portare in giro in macchina col ragazzo giusto per farla uscire e per far respirare un po’ anche i genitori, una sorella con cui, per via dei 7 anni di differenza, ci si voleva bene ma senza andare poi così tanto d’accordo. Penso però che questo male ci abbia tanto unito! Mi ha lasciato la testardaggine di ottenere ciò che voglio perché, nonostante la voglia delle professoresse delle medie di bocciarmi all’esame della terza perché avrei avuto troppe lacune, mi sono impegnata per conseguire il diploma senza mai essere bocciata.»

Ma non solo cosa positive – ahimè.

«Mi ha lasciato la tristezza di sentirmi “inferiore” nello sport perché, per preservare la protesi, non posso fare tutti gli sport che voglio ma sarebbe meglio solo il nuoto. Amo cavalcare ma una caduta da cavallo potrebbe mettere a rischio il lavoro fatto, la sala pesi va fatta con estrema cautela perché un movimento sbagliato potrebbe pregiudicare la stabilità. Ora pratico aquagym e anche tutti quei saltelli in acqua non vanno bene, ma è l’unica cosa che mi permette di sfogare e non sollecitare troppo la gamba.»

Però forse è vero che, finché non accade una cosa simile, si danno per scontate tante cose belle della vita.

«Mi lascia molta più consapevolezza dell’importanza della vita, del godersi ogni giorno senza lamentarsi di ciò che non si ha. Sono capace di stupirmi ancora di un bel tramonto o di un momento felice, forse non starò vivendo appieno la mia vita ma sono felice della persona che sono e della possibilità che mi è stata data. Il pensiero della malattia è sempre vivo, anche dopo 20 anni, infatti non manca mai la prevenzione. Ogni controllo va fatto entro il tempo prestabilito o magari qualche nuovo problema viene subito affrontato senza lasciar passare troppo tempo: bisogna ascoltare il proprio corpo e non minimizzare. Io sono stata fortunata una volta ad aver preso in tempo la malattia, ma ci sono stati altri piccoli che non ce l’hanno fatta e questa consapevolezza me la porto dietro come bagaglio di vita. Le parole “Sarcoma di Ewing” fanno rabbrividire e alcune persone mi dicono che sono una miracolata, forse per come abbiamo affrontato la malattia. Ad oggi dico: possibile. Allora non capivo minimamente cosa mi stesse accadendo, sapevo che dovevo andare tot giorni in ospedale, mangiare tanta carne per far salire i valori del sangue e stare attenta a non ammalarmi; ma oggi forse quella consapevolezza si fa sempre più chiara ed è per quello che sono grata per ciò che ho e per le persone che mi circondano.»

Ora Valentina ha 33 anni, come abbiamo detto, è una donna solare che cerca di costruire la sua famiglia. «Ho una casa, ho un compagno e un lavoro di geometra che mi piace. Dopo la scuola mi sono subito buttata a capofitto sul lavoro per cercare di essere autonoma e non sprecare altro tempo con gli studi. Volevo essere indipendente e non “pesare” più in casa. Non ho da lamentarmi della mia vita, sono circondata d’amore: ho pochi amici ma sono quelli giusti, perché quando ti accadono queste cose secondo me la maturità ti spinge a fare molta selezione. Le persone che mi circondano sono abbastanza mature da capirmi anche se non hanno vissuto con me quell’anno, sanno capire i miei sorrisi quando sono sinceri o quando sono un po’ preoccupata. Eh, perché anche questo mi sono portata dietro: la presunzione di poter affrontare le mie preoccupazioni da sola, una volta che si spegne la luce in camera. Sono tanto forte ma delle volte è solo una maschera e chi mi sta accanto lo sa e sa come prendermi.»

Non può non onorare, tuttavia, il soprannome che le danno a 10 anni: “sorriso” e lei, piccola combattente ormai donna, sorridente lo è. E vive la sua vita proprio come vorrebbe, rendendola un capolavoro.

«Un sorriso ci sarà sempre per chiunque incroci il mio sguardo. Vorrei solo che mi regalassero più spensieratezza, quella che mi consentirebbe di non badare al portafoglio ma di buttarmi nella ristrutturazione della casa che vorrei, piuttosto che nel fare lo sport che mi piacerebbe senza pensare a ciò che accadrebbe alla protesi, che comunque si usura e va sostituita. Forse la spensieratezza è ciò che dai 13 anni mi hanno tolto per regalarmi una seconda occasione… ma comunque va bene così, viviamo giorno dopo giorno!»

 

Exit mobile version