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Michela Murgia e la famiglia allargata: salvezza o stranezza?

Dai social di Michela Murgia

Dai social di Michela Murgia

Se pensate che la famiglia queer raccontata da Michela Murgia non sia allineata con ciò che realmente serve all’essere umano, NON continuate a leggere questo articolo. Perché probabilmente, se la vostra idea è arroccata su un luogo da cui non volete andare via, potrebbe darvi addirittura fastidio o “triggerarvi” (come si dice oggi se siete nati dal 2000 in giù). Questo perché forse non vi siete mai informati pienamente su quelle che sono le modalità dell’essere umano nei secoli e nei diversi luoghi del mondo, di vivere la famiglia.

O forse lo sapete ma non ci avete pensato mai abbastanza. Perché ad esempio ci sono posti in cui esiste la poliandria (donne che hanno più uomini) e altri in cui i figli vengono accuditi all’interno di clan familiari che coabitano o vivono in grandi comunità. Insomma, per dire che il matrimonio così come lo conosciamo oggi non è di certo nato con l’uomo, tutt’altro, è stato creato dall’uomo, che è una ben cosa diversa. E i motivi sono sempre quelli che muovono qualunque cosa: e no, non è l’amore dispiace dirlo, ma la convenienza, intesa non strettamente in termini economici, quanto di semplificazione della vita quotidiana, nei doveri, diritti, incombenze, sopravvivenza.

Dai social di Michela Murgia

Il matrimonio di oggi, quello tra due persone per intenderci, se guardate nel profondo, a cosa ha portato? Spesso a solitudine, a gruppi umani-familiari disgregati, a figli che devono essere accuditi da estranei e genitori anziani curati da persone che per necessità economica devono a loro volta allontanarsi dalla propria famiglia, che magari si trova dall’altra parte dell’Europa o del mondo. E tutto questo non potrebbe risultare incoerente con la nostra moderna e costante ricerca della felicità?

Tutto questo non per difendere o prendere le parti delle scelte di Michela Murgia: solo per sottolineare come è solo la libertà di scelta che può portare alla soddisfazione e completezza. Lei ha avuto il coraggio di raccontare pubblicamente ciò che ha deciso per sè e che non rispecchia la “normalità”, o meglio i costumi cui siamo abituati. Dovrebbe essere un sacrosanto diritto doversi organizzare l’esistenza come meglio si crede, senza ascoltare i dogmi di chi dall’alto professa come unico possibile uno stile di vita che spesso può non essere coerente con le nostre necessità.

Perchè poi è di questo che si parla: necessità e sopravvivenza. D’amore non si muore, l’hanno sempre detto tutti, dagli scrittori ai cantanti, ma se non si hanno un abbraccio e un sorriso delle persone cui vogliamo bene, si.

Dai social di Michela Murgia

A seguire un recente post di Michela Murgia sul significato che la lingua sarda da al termine su sposu/sa sposa. E indovinate un po’, secondo voi ha a che fare strettamente col matrimonio? Ma ovviamente no!

“La parola più queer che esista in sardo è “sa sposa/su sposu”. Letteralmente significa “fidanzata/fidanzato”, ma nell’uso comune è piegata di continuo a rapporti con col fidanzamento non hanno nulla a che fare, così come col genere o con l’età. I padri e le madri chiamano così i figli, che la usano a vicenda e verso i genitori. I nonni e le nonne ci chiamano tutto il nipotame. Gli amici e le amiche si apostrofano in quel modo tra loro anche scherzosamente in forma tronca: “sa spò/ su spò”. Mia zia e mia nonna mi hanno chiamata più così che col mio nome e mio fratello mi risponde al telefono tutt’ora in quel modo. È come se l’intera isola tutti i giorni tenesse insieme i ruoli attraverso la categoria del fidanzamento e a pensarci bene è curioso, perché è una categoria incompiuta (una promessa) e non rappresenta alcun titolo familiare. Sposa e sposo sono parole che indicano l’elezione affettiva, non un ruolo. Lo scopo del fidanzamento è conoscersi e piacersi al punto da farsi balenare la felicità a vicenda e mi pare una postura sentimentale molto bella da esercitare. Nella queer family che vivo non c’è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni. Dopo lo sconcerto dei non sardi, ha vinto l’evidenza: l’elezione amorosa va mantenuta primaria, perché nella famiglia cosiddetta tradizionale i sentimenti sono vincolati ai ruoli, mentre nella queer family è esattamente il contrario: i ruoli sono maschere che i sentimenti indossano quando e se servono, altrimenti meglio mai. Usare categorie del linguaggio alternative permette inclusione, supera la performance dei titoli legali, limita dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose e le fa fluire.

Nelle foto, esempi di sposa e sposo stabili della mia vita. Sono personali, certo, ma non vogliamo siano più private. La queerness familiare è una cosa che esiste e raccontarla è una necessità sempre più politica, con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo”.

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