Partita per la prima volta alla volta dell’Irlanda come ragazza alla pari quando aveva solo vent’anni, ha girato l’Europa per occuparsi di bambini provenienti dagli ambienti culturali e sociali, oltre che geografici, più disparati. Con le prime esperienze all’estero ha avuto modo di conoscere l’Irlanda, Londra e Barcellona, perfezionando le lingue e avvicinandosi sempre di più al mondo dell’educazione infantile. Nella sua valigia, oltre alla voglia di imparare sempre cose nuove, ci sono la sua fedele macchina fotografica e montagne di libri.
Parla correntemente inglese e spagnolo, e ha appreso anche un po’ di albanese nei dieci mesi del primo Erasmus a Tirana. L’esperienza nei Balcani è stata quasi un colpo di fulmine, e in men che non si dica si è trovata a girarli in lungo e in largo, in treno, in macchina, in bus, dalla Bosnia, alla Serbia, dalla Croazia, alla Slovenia, al Kosovo.
«Quando sono partita per la prima volta avevo vent’anni e pensavo questo, partivo per essere me stessa, capire chi ero, fuggire da quello che ero stata fino ad allora. -racconta Alessandra- Se devo trovare un filo che collega i luoghi in cui ho vissuto in questi anni è senza dubbio il coraggio. Non il mio, no. Il coraggio della gente, dei bambini soprattutto. Li ho lasciati indietro questi bambini fra le scogliere d’Irlanda, li ho ritrovati un po’ cresciuti mentre cercavano la mia mano perduti nella nebbia in Inghilterra, li ho ritrovati in Spagna che erano già grandi e insieme abbiamo corso fino alla piazza più grande di Tirana dove li ho visti allontanarsi per quelle strade di polvere mentre la mia nave passava ancora una volta dall’altra parte dell’Adriatico.»
Tra le tante avventure ce n’è forse una che l’ha segnata particolarmente, ed è quella di Sarajevo. Il secondo Erasmus lo ha fatto qui, in questa città di mezzo, segnata da una guerra che ha smesso di lanciare bombe ma che rimane nei buchi dei proiettili sui muri dei suoi palazzi e nei ricordi delle persone. Di chi è rimasto e di chi non c’è più. A Sarajevo ha lavorato al War Childhood Museum, un luogo magico in cui son stati raccolti gli oggetti che gli adulti di oggi hanno portato con sè durante la loro infanzia sotto le bombe. Ci sono bambole, foto, giochi.
Il 3 novembre 1993 il Vecchio Ponte di Mostar venne distrutto a colpi di cannone. Io nel 1993 avevo solo cinque anni e quel momento me lo ricordo, toccavo lo schermo del mio vecchio televisore e il vetro freddo mi rimandava indietro una città divisa in due. Forse ho pensato che fosse un film, forse sapevo che era vero. Quei telegiornali dal 1991 al 1995 non li ho mai più dimenticati.
Quando ho varcato la soglia del War Childhood Museum per la prima volta lo scorso agosto ricordo che mi è venuto incontro un ragazzo timido e sottile, mi ha fatto sedere su una poltrona vicino a una parete di vetro, oltre c’era il museo. Abbiamo la stessa età io e Jasminko Halilovic, io lo so e glielo dico e lui mi dice che sorrido troppo per una che è nata nel 1988.
La gente a Sarajevo parla sempre della guerra, qualcuno ne ha ancora paura, qualcuno ci si è perso per sempre, altri sono diventarti eroi e soldati, qualcuno è scappato.»