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“Sa pipiedda”, la compagna del defunto: l’antico rito funebre che ingannava la morte

The wake, Spanish village (1950) -Il famoso scatto di W. Eugene Smith - Immagine simbolo

Morte e superstizione, due elementi che, nella Sardegna antica, erano estremamente legati. L’avvento della prima confermava le ansie scaturite dalla seconda e non vi era credenza, usanza o costume che non cercasse in qualche modo di evitarla. Nella cultura sarda la morte ha sempre avuto un grande significato, tant’è che quando essa sopraggiungeva, seguitava un profondo rispetto, espresso attraverso consuetudini vecchie di secoli, se non di millenni: particolari rituali, rigidi e quasi sacrali, eseguiti secondo regole e dettagli ben precisi, più o meno simili in tutta l’Isola. Tra i riti che si ritrovano nell’immenso bagaglio della antiche usanze funebri isolane, quello de “sa pipiedda”, la compagna del defunto, è certamente tra i più suggestivi, un’usanza che, seppur rispettosa di quella temuta signora avvolta in un manto scuro, la ingannava, o almeno tentava. “Sa pippiedda” o “pizzinnedda” era uno degli oggetti che potevano ritrovarsi nel corredo funerario di un defunto: giaceva con lui, con il compito di accompagnarlo nell’aldilà e dargli conforto nel sonno eterno. Un oggetto importante che – si diceva – «serviat pro su cossolu ’e su mortu», per consolare il morto.

Sa pipiedda

Si tratta di una sorta di pupattola confezionata con due pezzi di tela bianca oppure plasmata con la cera, una bambolina dalle sembianze femminili preparata in gran segreto da un parente del defunto e nascosta dietro la schiena o sotto le ascelle delle salma. Non sempre, però, “sa pipiedda” compariva nel corredo funerario. La sua presenza, infatti, era dettata da circostanze particolari e giustificata in modi diversi a seconda delle zone in cui la si confezionava, anche se con un obiettivo comune: quello di ingannare la morte e placare l’anima del defunto che, soffrendo di solitudine nel mondo dei morti, avrebbe fatto ritorno in quello dei vivi, portando via con sé un suo parente stretto – solitamente quello a cui era più affezionato – o una giovane del vicinato. Se accompagnato nell’oltretomba da “sa pipiedda”, invece, lo spirito del defunto non avrebbe sofferto e, confortato da quella compagna, non avrebbe più avuto motivo di tornare indietro.

Tale pratica era assai diffusa specialmente negli angoli del remoto entroterra isolano e, benché oggi sia andata ormai perduta, molti, tra gli anziani, la ricordano. In Barbagia, ad esempio, quando due membri della stessa famiglia morivano a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, persisteva la convinzione che la seconda morte fosse una diretta conseguenza della prima: a causarla sarebbe stato proprio lo spirito del primo defunto, tornato in famiglia per portar via il secondo. Così, con l’intento di scongiurare un’ennesima perdita, alcune persone della famiglia si preoccupavano di preparare quella piccola compagna per l’aldilà. Alta circa dieci centimetri, “sa pipieddasi confezionava con dei pezzetti di tela o fazzoletti bianchi: con il primo lembo si realizzava il corpo, delimitando la testa con del filo, mentre il secondo, arrotolato, si fissava trasversalmente, delineando le braccia. Il risultato finale era quindi una figurina molto simile alle note “pipias de istrazzu”, le bambole con cui giocavano le bimbe nel secondo dopoguerra. In alternativa, si poteva impiegare la cera, che veniva plasmata creando un oggetto simile ad una croce. Una volta ultimata, “sa pipiedda” veniva poi riposta insieme alla salma, segretamente, prima che la bara fosse chiusa: in questo modo si ingannava la morte e il defunto, soddisfatto, non avrebbe più fatto ritorno tra i vivi.

Antichi riti funebri in Sardegna – Immagine simbolo

Quando si usava

Oltre al caso delle due perdite consecutive nella stessa famiglia, vi erano anche altre circostanze a decretare la presenza di quell’oggetto nel corredo funerario. “Sa pipiedda” era solita accompagnare nell’aldilà gli uomini vedovi e quelli celibi, ponendosi come valida sostituta di una donna vera che, altrimenti, il defunto avrebbe cercato in una fanciulla della famiglia o del vicinato. In altre zone dell’Isola, invece, si era soliti mettere quell’oggetto a qualsiasi defunto, a prescindere da quale che fosse la sua condizione in vita, perché il suo spirito sentiva comunque il desiderio di tornare. Tuttavia, “sa pipiedda” non accompagnava mai i bambini e tale pratica funebre era ammessa dai quindici anni in su.

Le testimonianze su questa antica usanza si ritrovano soprattutto in Baronia, a Orotelli, a Orgosolo, ma anche a Bitti: qui, la pupattola si confezionava principalmente con l’impiego della cera ed era nota come “sa pizzinneda ’e chera”, oppure con delle stoffe di lino e, in questo caso, era detta “sa mummiedda”. Sebbene fosse consuetudine confezionare una sola pupattola, non mancavano, inoltre, i casi in cui ben due “pipieddas” (una sotto ogni ascella) fossero donate al defunto, forse per maggiore sicurezza.

Tale rito funebre riveste un’importanza particolare, in quanto getterebbe luce su alcune scoperte archeologiche riferibili al Neolitico. Alcuni studiosi, infatti, vedono nella compagna del defunto un riflesso di quelle statuette femminili ritrovate, accanto all’inumato, in diverse sepolture ipogeiche della Sardegna, spesso identificate nella Dea Madre. “Sa pipiedda” permetterebbe di dare a tali ritrovamenti un nuovo significato: non più figura divina e sacra, ma un semplice dono per rendere più confortevole la vita ultraterrena. Pare, quindi, che tale usanza sia vecchia di millenni, perpetuata attraverso un filo teso nel tempo, protrattosi sino ai nostri giorni e tramutatosi in un rito di scongiuro e inganno contro la morte.

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