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Carola Farci, da Cagliari al Sahara per conoscere il popolo “Saharawi”, in esilio da più di 40 anni

Carola Ludovica Farci dai saharawi

di Carola Ludovica Farci

Siamo arrivati ai campi Saharawi sabato 17 febbraio, e siamo andati via venerdì 23. Tecnicamente sono sette giorni.
In realtà, però, sono ben di più e ben di meno, sono un tempo lungo una vita e un battito d’ali al contempo. E non so se questo abbia a che fare col concetto di relatività spazio-temporale o semplicemente con l’effetto che fa entrare in un mondo parallelo di cui non sai niente e scopri tutto, catapultato in vite al limite della sopravvivenza, in un luogo giallo di caldo e arsura. Perché è così che vivono oggi i Saharawi, dopo che, nel 1975, il Marocco ha invaso il loro Stato, il Sahara Occidentale, costringendoli ad una fuga rocambolesca oltre il confine, sino al deserto inospitale dell’Algeria in cui, da quarantatré anni a questa parte, dimorano.

Vivono così: in tende o piccole case di sabbia/lamiera/muratura, spoglie di ogni arredamento. Senz’acqua corrente, solo con un’autobotte che viene a riempire le cisterne una o due volte al mese, acqua putrida e insana.  In una dimensione in bilico tra i bisogni che impone la sopravvivenza e il non voler accettare nulla di definitivo, che non sia transeunte, che annienti la loro unica speranza per il futuro: tornare alla loro terra, tornare ad essere un popolo di pescatori, scappare da questo deserto senz’acqua.

Io scopro questo mondo quasi per caso, grazie all’associazione Looking4 che già da parecchi anni si occupa di sensibilizzare e far conoscere al mondo occidentale la causa saharawi. Una causa che in Sardegna ignoriamo quasi completamente, ma sulla quale si è espresso l’ONU promettendo un referendum che non è mai stato fatto. Per cui, anche se in Europa ci ostiniamo a non riconoscerlo, la Repubblica Araba Democratica dei Saharawi è riconosciuta dall’Unione Africana, di cui fa parte, e dagli Stati dell’America del Sud. Ma per noi, per le nostre cartine geografiche, quel territorio non esiste, cancellato dalla scritta diagonale “Marocco”, ucciso dalla disattenzione occidentale.

Quando arriviamo è piena notte. Siamo stati scortati dall’aeroporto di Tindouf sino al campo di Auserd. Solo l’anno scorso è arrivata la corrente elettrica, usata ancora con parsimonia, per cui la notte è notte davvero.  Quando arriviamo ho paura.

Che andare sin laggiù fosse una follia me l’avevano detto tutti: dagli amici ai parenti sino ad arrivare alla Farnesina, che sconsiglia i viaggi nella zona. E poi, via, lo dice il buon senso: cosa ci si va a fare ai confini del mondo? Ho passato un mese a fare l’elenco dei possibili pericoli: parassiti intestinali, parassiti della pelle, scorpioni, serpenti, predoni del deserto, mine antiuomo, terroristi di vario tipo e varia origine, comparti dell’esercito allo sbando, e così via, in un delirio che non ha vero e proprio limite tra il terrore irrazionale delle viscere e il sacrosanto scoramento della ragione.

Quando arriviamo, dunque, entro in punta di piedi in questo nuovo mondo. Che, invece, si rivela un infinito abbraccio. Quei sette giorni, che sette appaiono ma sette non sono, passano così, correndo da un posto all’altro, scoprendo il più possibile di questa cultura e di questo popolo, distribuendo a chi più ne ha bisogno i materiali e le donazioni portate dall’Italia. Fotografando, con la fotocamera e con la mente, le condizioni di vita assurde a cui sono costretti, nelle quali mi lascio trascinare dai miei compagni di viaggio di Looking4, che tornano ogni anno e ogni anno mostrano a qualcuno questo incredibile mondo.

La società saharawi è su base familiare, dove “familiare” non si riferisce al nucleo base, ma ad una enorme famiglia allargata, composta da fratelli, sorelle, nonne, zii, cugini, vicini di casa, e così via. Di questa famiglia entriamo a far parte pure noi, che passiamo le giornate ad osservare l’inferno di chi vive nella povertà e nel disagio, e ci disperiamo per la nostra impotenza; ma poi, tutte le sere, veniamo accolti dalla grande famiglia, e ci riposiamo assaporando il tè alla menta insieme a tutti loro.

La nostra è stata un’esperienza bellissima e indimenticabile, anche se molto forte. Abbiamo conosciuto chi toglie le mine inesplose da sotto la sabbia, rischiando la vita; chi vive malato in una tenda e non può muoversi mentre le mosche lo divorano vivo; chi non ha i vestiti per affrontare il caldo delle giornate e il freddo delle notti; chi ha un bambino piccolo e poco latte; chi ha problemi di deambulazione e sulla sabbia cammina a stento. C’è stato chi ha diviso con noi il proprio cibo e chi ci ha ringraziati con un lungo abbraccio per quello che abbiamo portato dall’Italia; chi ci ha insegnato il segreto dell’ossigenazione del tè e chi ci ha portato un regalo e ci ha fatto piangere. Ma quello che c’è stato chiaro, durante ogni istante di questa settimana fuori dal tempo e dallo spazio, è stata la grande dignità del popolo saharawi, che ci si rivela sin da subito in tutto il suo coraggio e in tutta la sua voglia di non darsi per vinto, né cedere alla furia bestiale.

È un popolo che ci accoglie con generosità e pazienza, ci racconta la sua storia, ci chiede di testimoniarla. E questo io, ora cerco di fare: raccontare la storia dei Saharawi, il popolo del deserto che sogna l’Oceano, che guarda il giallo della sabbia e l’azzurro del cielo, impiegando tutte le proprie forze per ricavare, da questi due colori, una sintesi: il verde dell’erba che lì non cresce, il verde della speranza di un futuro migliore e diverso.

Da quest’anno, anche in Sardegna, apriremo tramite Looking4 due progetti a favore del popolo saharawi. Per chi volesse avere maggiori notizie, invitiamo a seguire la pagina Facebook dell’associazione, o il sito internet: www.looking4associazione.com . Il viaggio di quest’anno è terminato, quello dell’anno prossimo, dove ognuno di voi può far sentire la propria solidarietà, è appena cominciato.

Carola Farci

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