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Il Teatro Dallarmadio ritorna in scena con “Alfonsina Panciavuota”, storia di una Sardegna stracciata dalla povertà

Alfonsina Panciavuota

Sono andata al cinema pensando di andare a teatro: una sensazione di coinvolgimento totale di fronte ad una scena viva. È ciò che ha trasmesso “Alfonsina Panciavuota”, ultimo progetto teatrale di e con Fabio Marceddu con la collaborazione drammaturgica di Francesco Niccolini, per la regia di Antonello Murgia. Una regia “cinematografica” caratterizza, infatti, questo nuovo esperimento scenico, dove compaiono gli echi degli insegnamenti di Lee Strasberg, che hanno integrato le precedenti e decennali esperienze formative degli artisti del Teatro Dallarmadio.

Alfonsina Panciavuota la chiamano così per la fame e le sofferenze che invece quella pancia gliel’hanno riempita. Ed è da questo stesso ventre che arriva il racconto di una vita vissuta fra povertà e soprusi, in una Sardegna attraversata dalla guerra, dove l’unico sostentamento erano i figli – che si vendevano – e la terra. Lo ripete, lei, Alfonsina, che è nata nel 1932, ultima di nove figli. Ultima fra gli ultimi, venduta a 10 anni come servetta arriva nella casa della famiglia Spinetti, di Caterino Spinetti proprietario di una miniera in Sardegna. Un padrone avaro di denaro ma non di voglie che Alfonsina deve soddisfare. E ancora c’è il bigottismo delle tre sorelle Spinetti, che hanno accolto Alfonsina nella loro grande casa ma sanno bene “nella grazia di Dio” come riportarla alla sua subalternità. C’è la prepotenza del mezzadro degli Spinetti e l’ipocrisia di Don Oliviero pronto a riscuotere anche lui la sua parte, per riportare poi Alfonsina alla sua condizione di peccatrice, perché donna e quindi tentatrice per eccellenza: “È solo tua la colpa, Alfonsina, tua colpa, tua grandissima colpa. Zio Caterino è un vecchio e come tutti i vecchi ha fame, vuole mangiare e tu ti sei fatta cibo per lui”.

foto: Francesca Mu

In un quadro desolato di soprusi e di fredde gerarchie sociali dove sembra non ci sia posto per l’umanità, l’umanità riemerge nel popolo, nei proletari che quella miniera la fanno andare avanti, scendendo ogni giorno nelle viscere della terra per arricchire il padrone. Ma un giorno tutto questo finisce, così come finisce la guerra ma non la miseria, e nel ’46 Alfonsina – che nel frattempo ha trovato il suo amore, Efisio, operaio della miniera – si ritrova a dover pagare il conto della bramosia altrui. Provvidenziali, però, arrivano i primi malcontenti giù alla miniera e quel castello di sabbia messo in piedi dal potere inizia a sgretolarsi, non senza conseguenze per tutti.

Su un palco dove il nero dei costumi e degli allestimenti – curati dall’artista Paoletta Dessì – accompagna questa tragedia, le luci e le musiche – queste ultime scritte da Antonello Murgia – custodiscono i toni sommessi del racconto. Qui c’è posto per tutte le voci, riunite in quella poliedrica di Fabio Marceddu – unico attore in scena – ma solo ad Alfonsina, sola nel suo dolore di madre e di moglie, è concessa l’ultima parola.

Alfonsina «Lo dedico a tutte le donne della mia vita» dichiara Marceddu, ma la dedica la si può estendere a tutte quelle donne, a volte ancora bambine, che nei secoli passati fino ad oggi sottostanno loro malgrado alla subalternità e all’idea che l’uomo sia naturalmente autorizzato a considerare sua una donna. All’idea che l’uomo possa in qualche modo disporre di una donna solo perché tale, privandola di quella umanità che ci rende tutti unici, indipendenti e, in quanto tali, degni di rispetto. Con Alfonsina arriva di nuovo dal teatro una grande e ancora rivoluzionaria lezione di umanità.

 

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