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Straordinaria scoperta sulla Sella del Diavolo: archeologi ritrovano l’antica chiesa dedicata a S. Elia

I resti della chiesa

I resti della chiesa

di Carla Cossu

Nella mattinata del 3 dicembre, nella cornice di Capo Sant’Elia, si è svolto l’evento “Paesaggi di Migrazione”, promosso da Legambiente. Nel corso della manifestazione, l’archeologa Maria Adele Ibba, direttore responsabile degli scavi che l’Università di Cagliari conduce nell’area, ha riferito i risultati delle ultime indagini: la novità più consistente? Il ritrovamento dell’antica chiesa di Sant’Elia al Monte, un luogo molto venerato della Cagliari del passato. Era qui che, a partire dal Medioevo, i fedeli venivano a pregare il Santo che ancora oggi dà il nome al vicino quartiere.

Dell’edificio, la cui presenza era conosciuta attraverso le fonti scritte, si era completamente persa traccia, anche se, probabilmente, un suo ricordo è rimasto vivo nella memoria dei Cagliaritani, visto che anche di recente è capitato di trovare sul promontorio fiori e ceri lasciati da qualche fedele. Tuttavia, come spiega Maria Adede Ibba: «Solo gli scavi di quest’estate ci hanno permesso di identificare al di là di ogni dubbio quali siano i resti della chiesa».

Di Sant’Elia e del suo culto, purtroppo, sappiamo poco. Secondo la leggenda, fu uno dei più antichi martiri sardi, vissuto tra III e IV secolo, al tempo dell’imperatore Diocleziano. Pare fosse un eremita che viveva in preghiera, rifugiandosi nelle numerose grotte della Sella del Diavolo. A quanto dicono le fonti, aveva più di novant’anni quando venne arrestato dalle autorità romane: tuttavia la sua tarda età non impietosì i sicari, che lo uccisero conficcandogli un lungo chiodo nella testa, per poi infine decapitarlo. I Cagliaritani, per ricordare la sua figura, costruirono appunto la chiesa di S. Elia al Monte e, quando nel 1600 rinvennero quelli che interpretarono come i suoi resti, li portarono nella Cripta dei Martiri in Cattedrale, dove sono conservati tutt’ora.

La prima menzione della chiesa risale all’anno 1089, quando venne donata ai Vittorini di Marsiglia, che stabilirono qui un monastero. «Questo significa che in epoca medievale l’edificio doveva già esistere, ma non abbiamo abbastanza indizi per poter dire esattamente quando sia stato costruito», prosegue la Ibba. «Quello che sappiamo è però che la scelta del luogo, così impervio, poteva avere ragioni strategiche. Da lì si dominava tutto il Golfo di Cagliari e inoltre si potevano anche controllare le vicine saline, di cui i Vittorini avevano la gestione».

Archeologi al lavoro

Come emerge sia dagli scavi che dalle carte d’archivio, la chiesa ha subito continui abbandoni e restauri che nei secoli ne hanno mutato le forme: «Il primo impianto, di età medievale, doveva essere piuttosto grande; a un certo punto però la chiesa andò in rovina, per essere ricostruita nel 1617, dai Quartesi, con dimensioni ridotte; è in questo periodo, tra l’altro, che cambiò l’intitolazione e venne dedicata a Sant’Elia, il profeta biblico. Esattamente 100 anni dopo, nel 1717, venne distrutta dagli Spagnoli e nuovamente ricostruita; quel poco che resta dei muri appartiene probabilmente proprio a questa fase del XVIII secolo. Per quello che possiamo capire dagli scavi, l’edificio doveva avere un’unica navata e tre altari, di cui uno principale e due laterali». E per quanto riguarda gli arredi? «Per fortuna qualcosa è arrivato a noi, tratto in salvo dai Quartesi e portato nella chiesa rurale di Nostra Signora del Buoncammino. Rimane ad esempio una bella statua che ritrae S. Elia Profeta, oggi conservata nel Museo Parrocchiale di S. Elena».

Ma l’area di Capo Sant’Elia, oltre alla chiesa da poco riscoperta, offre anche altre importantissime testimonianze archeologiche. Come sottolineato da Carlo Lugliè, archeologo e docente dell’Università di Cagliari, anche lui intervenuto nel corso della manifestazione, vi sorgono le grotte da cui provengono le ceramiche preistoriche più antiche della Sardegna e almeno una Domus de Janas. Inoltre il sito era frequentato anche in età punica e romana, come testimoniano le tracce dell’antico tempio di Astarte/Venere Ericina e la presenza di due antichissime cisterne, una delle quali venne collegata alla chiesa e utilizzata sino al XVIII secolo. Seguendo poi il corso degli anni, è possibile ammirare, a poca distanza dagli scavi della chiesa, la Torre della Lanterna, oggi in gravi condizioni di degrado che, come afferma il co-direttore scientifico degli scavi, Alfonso Stiglitz: «È la più antica torre costiera di avvistamento della Sardegna, risalente al 1200». Poco più in basso vi è poi la cosiddetta “Torre del Poetto”, costruita negli anni della dominazione spagnola.

Torre della Lanterna

Sono stati in molti a chiedersi, negli ultimi anni, quando un contesto così ricco dal punto di vista ambientale e storico sarà pienamente fruibile, magari anche attraverso un percorso organizzato, presentato da guide turistiche competenti. «C’è sicuramente l’intenzione di rendere fruibile la zona» afferma Maria Adele Ibba «ma per ora siamo ancora in fase di ricerca e di scavo. Il Comune di Cagliari ha sempre finanziato i lavori e i fondi per la prossima campagna sono già stati stanziati».

«Il Comune di Cagliari si è già mosso in favore di quest’area, ma in futuro ci sarà certamente bisogno di fare di più», spiega l’Assessore ai Lavori pubblici Giovanni Chessa, intervenuto nel corso della mattinata. «I percorsi vanno resi più funzionali, forse dividendoli tra quelli destinati agli escursionisti a piedi e quelli solcati dalle mountain bike. Questo posto è meraviglioso, ma non ancora abbastanza conosciuto, né dai turisti né dagli stessi Cagliaritani».

Durante la manifestazione hanno partecipato al dibattito, tra gli altri, anche Annalisa Columbu, presidente di Legambiente Sardegna, Vincenzo Tiana, presidente del Comitato scientifico di Legambiente Sardegna, Vittorio Cogliati Dezza, responsabile delle politiche dei migranti di Legambiente, Martina Sollai, ricercatrice ambientale presso l’Università di Utrecht e alcuni migranti dell’Associazione Terra Battuta.

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