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La Sardegna nel cuore e sull’Everest, a tu per tu con l’alpinista sardo Angelo Lobina

Angelo Lobina (destra) sventola la bandiera dei Quattro Mori sulla cima dell'Everest

Sta portando in alto il nome della Sardegna in giro per il mondo,  anno dopo anno la lista delle vette scalate si riempie con nuovi traguardi. Abbiamo chiacchierato oggi con Angelo Lobina, l’alpinista nuorese che pochi giorni fa ha scalato l’Everest, la cima più alta della terra, primo fra i sardi ad aver issato la bandiera dei Quattro Mori a 8848 metri di altitudine.

L’alpinista sardo Angelo Lobina

Angelo, come ci si sente ad essere il primo sardo ad aver fatto sventolare la bandiera dei quattro mori sulla cima dell’Everest?

È un onore per me, mi riempie di orgoglio, oltretutto io porto avanti il progetto “Sardegna7Summit” e sono il primo in Sardegna a inseguire questo prestigioso risultato. L’Everest in particolare ha una valenza doppia perché è la montagna più alta della Terra, oltre che essere inserita di diritto nella collana Seven Summits. Sono fiero di essere io a portare avanti il buon nome della Sardegna.

Cosa significa, nei fatti, scalare l’Everest?

Fare l’Everest significa allenarsi per mesi e mesi precedentemente alla partenza, significa affrontare una spedizione lunga 60 giorni, affrontare disagi di ogni tipo, immaginabili pensando di stare due mesi in campi tendati, in una situazione dove ci si alimenta in maniera approssimativa. Ma a una certa quota, oltre l’ovvia fatica pratica del salire e la difficoltà ad alimentarsi e bere, a 8000 metri di altitudine anche infilarsi gli scarponi fa venire il fiatone.

Insomma, dietro a una scalata del genere c’è non solo una preparazione fisica, ma anche psicologica?

C’è una preparazione fisica molto accurata, non potrebbe essere altrimenti perché bisogna preparare il fisico a condizioni davvero estreme, senza avere la certezza che sia sufficiente. Tant’è che il periodo in cui ero lì ho visto tante persone dover rinunciare, incorse a problemi di congelamenti o malessere da alta quota, quindi sicuramente una preparazione fisica molto accurata ma altrettanto importante è la preparazione psicologica, perché stare in spedizione per due mesi significa mantenere il focus sull’obiettivo per un lungo tempo, anche durante le noiosissime e lunghe giornate in cui bisogna stare chiusi in tenda e non si può uscire. Passare 72 ore chiusi in tenda, è molto dura (ride).

Come ti sei sentito una volta arrivato in vetta?

Quando arrivi in vetta ti dimentichi di ogni patimento, una soddisfazione, è un’esplosione di emozioni. Mi sono sentito grande, perché sei in cima al mondo, ma anche piccolo, perché percepisci di essere in un luogo fuori dal mondo e dal tuo controllo sopratutto. In quel posto ti rendi conto che la forza degli elementi è straordinariamente più forte di te, tu non hai possibilità di controllo, se non a priori nel senso di prepararti nel capire quando ci saranno le condizioni più favorevoli.

Chi è Angelo Lobina nella vita di tutti i giorni?

Angelo Lobina è un padre di famiglia, un compagno, un figlio. Lavoro come tanti altri e ritaglio il tempo per inseguire le mie passioni. L’alpinismo è una mia grande passione da sempre. Diciamo che sono uno che dà spazio ai propri sogni. Penso che nella vita sia importante fare proprio questo, non tenere chiusi i propri sogni nel cassetto, ma provare sempre a realizzarli. Poi raggiungerli fa piacere, ma il risultato va in secondo piano, l’importante è non avere mai il rimpianto di non averci provato.

A proposito di sogni nel cassetto, cos’è il progetto “Seven Summits”, quali vette hai scalato e quali ancora mancano all’appello?

Le “Seven Summits” sono un progetto alpinistico prestigioso seguito da tanti alpinisti nel mondo. Attualmente a livello mondiale gli scalatori sono meno di cinquecento, ma le classifiche ufficiali ne contato circa 400. In italia sono dieci persone e io sono il primo sardo a partecipare al progetto. Si tratta di scalare la cima più alta di ognuno dei sette continenti.  Io ne ho già compiuto sei, la settima e ultima tappa, se riesco a trovare i finanziamenti, dovrei completarla alla fine dell’anno, nel dicembre 2017. Si tratta dell’Antartide, una scalata molto impegnativa non per la quota ma perché è la terra dei ghiacci, una terra desolata dove non c’è vita. Fare 60 km di cammino significa portarsi appresso tutto il necessario per vivere, con una slitta da trainare. Una logistica complicata, un’avventura al limite. Sarebbe la settima cima scalata e quindi la coronazione del progetto.

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